Corriere della Sera, 24 maggio 2022
A 25 anni dalla sconfitta di Kasparov con il computer
«I computer sono incredibilmente veloci, accurati e stupidi. Gli uomini sono incredibilmente lenti, inaccurati e intelligenti». Non sappiamo se questa, come tante altre citazioni che gli sono state allegramente attribuite, sia mai stata partorita da Albert Einstein. Ma, quale che sia il copyright, l’aforisma ha anticipato la nostra rivincita. Oggi possiamo dire che quella complessa macchina organica che è il nostro cervello funziona con pochi carboidrati, mentre i computer sono sempre più energivori tanto che, riporta Science, stiamo cercando di produrre micro-chip che imparino la sostenibilità dalla biochimica: se il cervello di Leonardo da Vinci funzionava, come il nostro, con appena 40 watt (la potenza di una piccola lampadina), l’omonimo supercomputer di Bologna, uno dei più potenti al mondo, brucia 9 megawatt. Come siamo arrivati dunque a sviluppare questo senso di inferiorità? Una delle date chiave di questo processo di auto-imprigionamento è il maggio del 1997: esattamente 25 anni fa si consumavano a New York le sei partite a scacchi tra il campione mondiale russo Garry Kasparov e un computer Ibm Deep Blue. Il risultato fu di 3 vittorie a due per il computer e una partita patta. Pochi eventi nella storia hanno subito una tale valenza simbolica e profetica: come Copernico tolse dal centro dell’Universo l’essere umano e la Terra, così sembra che quella partita, immaginata decenni prima da Alan Turing, abbia alimentato una avviluppante narrativa sulla supposta superiorità delle macchine verso l’intelligenza umana. Siamo stati noi stessi a scrivere questa Macchiniade, una ingarbugliata epica dei computer.
Secondo alcuni, la colpa sarebbe da scovare nella scelta lessicale: avere battezzato la capacità e velocità di calcolo come «intelligenza artificiale» – a coniare il termine nel 1956 fu lo scienziato informatico della Stanford University John McCarthy – avrebbe contribuito a costruire una scala gerarchica dell’intelligenza tecnologica. Ma anche questa è una ricostruzione debole se andiamo a smuovere i panni della storia: quando nel Quattrocento arrivò la stampa a caratteri mobili, venne chiamata ars artificialiter scribendi. E non ebbe vita facile subito (lo stesso Gutenberg fallì). Nel 1831 l’arrivo del telaio Jacquard che usava le schede perforate per automatizzare le trame del tessuto causò a Lione la rivolta dei canut, i tessitori di seta. E a proposito di Macchiniade, anche nell’«Iliade» l’uso di un marchingegno artificiale, il cavallo di Troia, venne disprezzato e giudicato una slealtà. La verità è che l’uomo ha sempre nutrito pregiudizi sulla tecnologia.
Con la sconfitta del 1997 si realizzò per certi versi la visione di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (il computer ribelle che prendeva il controllo del destino umano si chiamava Hal, le tre lettere che precedono Ibm. Un caso?). Da allora in poi anche Nature ha messo in copertina «l’intelligenza delle macchine» quando, oltre a perdere a scacchi, abbiamo perso anche a Go, la dama cinese, contro l’AI di Google, DeepMind.
«Rifletti sugli straordinari progressi compiuti dalle macchine negli ultimi cento anni e osserva come il regno animale e quello vegetale stanno avanzando lentamente. Le macchine più organizzate sono creature non tanto di ieri, quanto degli ultimi cinque minuti» scriveva già Samuel Butler. Ma nel 1872: era un contemporaneo di Charles Darwin e fu lui nel Libro delle macchine, pubblicato con lo pseudonimo di Cellarius, ad anticipare l’idea di una sorta di evoluzionismo delle macchine, in chiave luddista. «Non è il più forte quello che prevale, ma quello che si adatta meglio», anche alle politiche sulla CO2. Dunque: intelligenza umana batte intelligenza artificiale. Se non nei calcoli almeno nel funzionamento.
A scanso di equivoci un altro possibile apocrifo di Einstein è che «la mente è come un ombrello: funziona solo quando è aperta».
Intelligenza artificiale o umana, questo vale sempre.