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 2022  maggio 23 Lunedì calendario

Sul caso Striscia-Lagioia-Melissa P.

Da quando mi hanno detto che la chiacchiera più chiacchierata del Salone del Libro aveva a che vedere con Antonio Montecristo Ricci che da anni covava rancore contro Nicola Lagioia, e con una vecchia battutaccia di Lagioia su un libro d’una tizia nel frattempo divenuta per anzianità autrice rispettabile, e con “Striscia la Notizia” che ci difende dal patriarcato (se campi abbastanza a lungo, le vedi veramente tutte), penso molto a Gaia
«Avevo dato a Nicola Chiaromonte una trentina di pagine dattiloscritte del mio romanzo. Me le restituì con l’aria mesta dell’intellettuale meridionale, come per dire, Ma perché non provi un altro mestiere». Penso a Lagioia che dentro di sé scuote la testa come Chiaromonte, ma fuori invece di scuotere la testa opta per la battutaccia, in anni in cui una battutaccia poi non diventava uno screenshot da rinfacciarti a vita.
Se c’è una cosa che in Italia tutti quelli che si conoscono si ripetono è che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. Se c’è una cosa che mi ripeto io è che la rivoluzione non la fa chi la deve fare, perché mai dovrei farla io (perché mai dovrebbe farla il cinema, diceva Ugo Tognazzi nella “Terrazza”).
Ci conosciamo tutti, e io ho come tutti paurissima di Ricci, e pure di Lagioia, pur non conoscendo nessuno dei due ma essendo come tutti a un grado di separazione da tutti. Di Melissa Panarello – per anzianità divenuta autrice – no, ed evidentemente non sono l’unica, ad aver paura di tutti tranne che di lei, perché quando c’è stato da andare a rompere i coglioni al Salone la coraggiosa inviata di “Striscia” non è andata a chiedere a Lagioia «ma le sembra una cosa da dire», bensì è andata a chiedere conto alla Panarello del suo essere ancella del patriarcato: non abbastanza offesa da non stare lì, vent’anni dopo, non abbastanza arroccata da tenere il muso a uno che le aveva detto le brutte cose. (Io neanche mi ricordo i nomi di quelli che vent’anni fa non mi richiamavano dopo avermi scopata, ma sono in effetti una persona molto distratta).
Ora, sto per certificare l’impossibilità della rivoluzione, confermandovi che l’unico modo per prendersi la libertà di parlar male di tutti è non conoscere mai nessuno, e lo faccio usando Carlotta Vagnoli, che tre giorni dopo essersi sputtanata presentando il mio libro ha certificato la propria inadeguatezza di santino postmoderno dicendo all’inviata di “Striscia” – che pretendeva di questo scandalo si parlasse – «e allora parlane te», che m’è parsa la risposta perfetta (per il caso specifico ma anche per la pretesa dei varietà giustizieri di macinare Siae facendoti collaborare gratis: parla di me, se ci tieni, ma senza la mia apparizione non retribuita nel tuo pezzettino di tv).
Penserete che lodi la risposta di Vagnoli perché una volta che la gente la incontri poi smetti di mostrificarla e qualunque disaccordo ti pare più ragionevole, ma c’è un altro elemento, e riguarda la ferma condanna di Vagnoli da parte delle militanti cancellette: loro gliel’hanno data, loro gliela tolgono.
Il punto è che la colpa è proprio di Vagnoli. Giuro. Tutta questa vicenda qui è la perfetta sintesi d’un tempo creato illudendo le menti meno attrezzate d’un po’ tutte le generazioni che non esista niente: non lo stato di diritto, non l’onere della prova, non la prescrizione, non la possibilità di fottersene, non l’eventualità che non te ne freghi niente se uno t’insulta, non l’ipotesi che se un insulto è sessuale non sia su un livello di speciale imperdonabilità, non la gestione privata degli scazzi pubblici, non il rattoppare i rapporti senza pubbliche contrizioni, non il fare un po’ come cazzo ti pare senza renderne conto alle tifoserie, non i rapporti di forza che cambiano nel tempo e a volte persino all’insaputa degli uno che continuano a valere uno. Tutto è tribunale della folla, tutto è da consumarsi nella pubblica arena, e tutto – ogni meccanismo – si rivolta prima o poi verso chi l’ha creato.
Certo, rivoltarlo è più facile se sei Antonio Ricci e stai vent’anni sulla riva del fiume ad aspettare paziente il giorno in cui potrai accusare Nicola Lagioia di maschilismo tirando fuori la volta in cui disse che a Melissa Panarello bisognava ficcare nel culo le pagine di Nabokov così magari imparava. Per osmosi, precisava imprecisamente Lagioia, e io son tre giorni che penso ma magari: fosse così facile, sai gli aerosol di «(picnic, lightning)» che mi farei; «(picnic, fulmine)» è lo stupendevole passaggio in cui, con due parole tra parentesi, il narratore di “Lolita ”sintetizza lo strano incidente che uccise sua madre, è la frase che chiunque ami le parole darebbe un rene e cinque posti in classifica per aver ideato, è il capolavoro che nessuna osmosi ti procura.
Ricci, a fare Ricci, è più bravo delle imbarazzate (quasi tutte donne) ospiti del Salone molestate dall’inviata di “Striscia” richiedente contrizione e pubblica condanna. Nessuna dice all’inviata: ma, con questo criterio del rinfaccio perpetuo d’ogni stronzata mai detta, dovremmo ancora star qui a parlare di voialtri che vi tirate gli occhi per fare i cinesi. Con questa indignazione perpetua si fanno i cuori sull’Instagram, ora vogliamo farci anche la tv?
Nessuna glielo dice, ma la migliore è Vagnoli perché – spero di venire condannata per il classismo di quest’affermazione, per variare rispetto alle abituali condanne per sessismo – ha fatto la barista: cosa vuoi che si spaventi d’un’inviata di “Striscia”, se sa liquidare gli ubriachi molesti. Per questo dico che è colpa sua, sua in quanto simbolo di questo sistema di feticizzazione della fragilità: perché meglio di altre sa che cavarsela è possibile, che non cedere ai prepotenti è possibile, e che non restare attaccate a vita alla sbucciatura che ci fece male è possibile.
Cavarsela è possibile, non restarci male è possibile, restarci male e farsela passare è possibile. Dopo vent’anni, e soprattutto quando la battutaccia Lagioia l’aveva fatta mentre la Panarello piangeva fino in banca: non stava esattamente infierendo su un soggetto debole, ma su una ragazza all’epoca molto più di successo di lui. Non che possa rivendicarlo, giacché viviamo in un gigantesco format di scuse perpetue e mai bastanti, e quindi sabato gli è toccato fare il suo contrito post ribadendo cenere sul capo: forse si potrebbero cominciare a produrre industrialmente, post di scuse per bisticci di vent’anni prima come un tempo si producevano in serie i biglietti di buon compleanno. Sarebbe una app di sicuro successo. 
La Servadio raccontava che poi era andata da un agente, Erich Linder, che l’aveva rassicurata: «Non si preoccupi, gli editori italiani non capiscono niente». Invece gli scrittori. Invece gli autori televisivi. Invece noi.