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 2022  maggio 22 Domenica calendario


L’intervista a Buscetta dell’8 dicembre 1992

A trent’anni dalla strage di Capaci, ripubblichiamo la storica intervista al super pentito di mafia, realizzata da Eugenio Scalfari e Giuseppe D’Avanzo, uscita su “Repubblica” dell’8 dicembre 1992

Incontriamo TommasoBuscetta alle due del pomeriggioinuna casaromanamessaa disposizione per l’occasione. Ha una giacca blu epantaloni grigi. Non porta i consueti occhiali neri. Gli occhi sono quelliche abbiamoimparato a conosceredalle foto, macon una mobilitàe una vivacità che restano in mente.Parla scioltamente mapesa le parole.
A volte s’ interrompe, riflette per qualchesecondo epoi scarta la domandaperché«quell’argomentoè ancora all’esame del giudice e quindi vatenutocopertopernon comprometterele indagini».
Questa è lasua unica intervista da quandoè tornato in Italia ed èlui che ci tiene a dirlo perché «quelle uscite sulla StampaesuEpocaeranobrevi colloqui non destinati alla pubblicazione»chenoncontengono autenticamente il suo pensiero.
L’intervista ha toccato tutti gli argomenti sui quali Buscettaè in gradodi contribuire all’accertamento della verità mafiosa.Poiché ormai è diventatomoltoesperto sucomeun pentito può essere screditato e su come si possa delegittimare l’intera categoria dei pentiti, nel corso della conversazione distingue ogni volta tra affermazioni che è in grado difaresulla base della sua personale esperienza, delle cose che ha sentito dire da altri e infine della sua “sapienza”, cioè delle deduzioni logicheche gli derivano dalla conoscenzaprofonda dell’ambiente mafioso.
Ha ripetuto tre o quattro volte la parola “sapienza” e il termine ci è parsoappropriato perchéquesto vecchiomafioso che ha l’aria d’un uomo nelpieno vigore delleforze parlae ragiona comeunsaggio, anche se si trattaevidentemente d’un saggio molto “sui generis”. Si fidava soltanto di Falcone. Il fatto di dover parlare con moltimagistratiche non conosce edi cui ignora tutto lo sconcerta e lo irrita.
Gli ha fatto un’impressione positiva il presidente dell’antimafia, Violante.
Ha grande stima per il giudice Caselli chespera sia nominato alla Procura di Palermo. Degli altri giudici non sa e nonvuole sapere. Soprattutto non vuolediventare un personaggio da circo, portato di qui e di là a rispondere acentodomandespessonon pertinentie alle quali non puòe non sa dare risposte attendibili e documentabili.Ricorda Falcone comeuna sortadi arcangelo Gabrielein guerra contro i draghi. Di se stesso parlacome uno chela mafia l’ha conosciutada quandoaveva diciassette anni e ci ha lavorato dentro finoaquandoneaveva cinquantasette,cioè per quarant’anni di seguito. Èlui che per primo ha rottola legge dell’omertà. Ripete con orgoglio:la Cassazione miha dato ragione; gli ergastoli contro gli uomini della Cupola sono io che li ho ottenuti. Di SalvatoreRiina parla come del nemicopubblico numerouno, ilsuo nemico,quello con il quale il conto è ancoraapertoenonsaancora comefinirà. Si ècommosso una volta, quandoha ricordato i due figli ammazzatigli dai corleonesi, dei quali nonha mai piùsaputo nulla: scomparsi, forse bruciati col fuoco o dissolti con l’ acido. Ha detto che la posta in gioco adesso è l’utilizzazione deipentiti; su questo puntoCosaNostragioca la partita decisiva ed è una partita interamentebasata sull’intelligenza perché ci sono vari modi per screditareun pentito. Lui conosceesattamente quali sonoe mette in guardia i pentiti stessi, i magistrati che li interrogano e i giornali che ne registrano dichiarazioni e verbali. Non è un gioco, si stacombattendo la battaglia decisiva tra lo Stato e la mafia, c’ è di mezzola vita dimolte persone, lasorte della Sicilia e quella di tutto il Paese. Il nostroincontro è duratodue ore e mezzo.
Il testo dell’intervista che pubblichiamoè un fedele resoconto cheBuscetta ha rivisto e approvato.
«Ve lodico io checosa accadrà in questo Paese nelle prossime settimane,nei prossimi mesi.
Colpiranno innanzi tutto i pentiti, tenterannodi distruggere laloro credibilità».
In che modo, signor Buscetta?
«In questi giorni, è sotto gli occhi di tutti. Il pentito si decide a verbalizzare e quel verbale finisce sui giornali primache l’ indagine abbia inizio. Ma visembra legittimo che si conoscano le dichiarazionidi GaspareMutolo primache ci sia un solo arresto?E questaè soltanto una delle possibilità».
Quali sono le altre?
«Faccio un esempio. Il pentito non si limita a dire soltanto quel che direttamente– per conoscenza diretta –sa, maanche quelloche gli hanno riferito. Ebbene, prima che siano conclusi i necessari riscontri, quella partedel “sentito dire” viene resa pubblica.E in base a quel “sentito dire”, legittimamente parziale, si tenterà di cancellareanche le dichiarazioni dirette. Con il bel risultato di fare un unico calderone dove a rimetterci è soltanto il pentito, a rimetterci sarà la lotta alla mafia.
Prendiamoil “caso Signorino”. Ho letto sui giornali che anch’io avrei fatto ilnomedi DomenicoSignorinocome giudice collusocon la mafia.È una falsità. Io non ho mai fattoin un verbaleil nome di Signorino. Se misi chiedeseSignorinoeraunuomod’ onore,io possodire, per conoscenza diretta, che non lo era...».
Le sue parole scagionano Signorino.
«Iononposso confermarené escluderecircostanze che non ho mai conosciuto».
Perché, secondo lei, l’unico nome finito sui giornali è stato quello di Signorino? Si ha l’impressione che si stava preparando un’offensiva giudiziaria ben più vasta che non avrebbe coinvolto soltanto Signorino, ma con Signorino altri magistrati, altri funzionari dello Stato.
«Èquel che penso anch’io. E quella fuga di notizie habloccato ogni cosa.
Signorino,in qualche modo, è stato sacrificatoin una campagna di disinformazione...».
Lei crede che sia in atto una campagna di disinformazione?
«Io credo che siamo soltanto all’inizio diunacampagna didisinformazione.
Neiprossimigiorni questacampagna si intensificheràe avrà, come obiettivo, la distruzione dei pentiti come testimoni credibili.
Guardate il “caso Signorino”. Tutta la colpa la gettano sulle spalle di Gaspare Mutolo.

Se ne andrà dall’Italia? Lei non aveva promesso di collaborare con la giustizia?
Nessuno dice che la colpa è del giudice e del poliziotto che ha passato la notizia al giornalista. Il pentito pagherà; il giudice e il poliziotto, no. È per questo che me ne andrò presto dall’Italia».
«E continuerò a farlo. Sono determinato a farlo...».
E allora perché va via?
«Sono deluso. Ecco perché me ne andrò anche se, ripeto, resto a disposizione dei giudici. Nessuno mi aveva costretto a tornare. Ero tornato di mia spontanea volontà dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino perché i loro colleghi di Palermo mi avevano chiesto se ero disponibile a farlo. Sono tornato per rendermi utile. Vedevo e vedo Cosa Nostra rantolare, Totò Riina rantolare. Sono convinto che lo Stato oggi può farcela se ha forza e determinazione. E invece...».
E invece, signor Buscetta, che cosa è accaduto in questi trenta giorni? Lei ha dipinta sul volto una smorfia di disgusto...
«Non so se disgusto è la parola giusta.
La parola giusta è forse fastidio. Sì, fastidio. Mi sono trovato per giorni a ricevere giudici. Venivano da ogni parte d’Italia Palermo, Caltanissetta, Roma e un colonnello dei carabinieri mi ha fatto vedere la lista dei prossimi incontri. Mi sembra che non ci sia pubblico ministero di questo Paese, da Reggio Calabria a Milano, che non voglia interrogarmi. L’altro giorno mi sono trovato davanti cinque giudici di Palermo. Dico, cinque».
È solo stanchezza, dunque.
«Non è solo stanchezza. È che mi sono trovato in una baraonda. Io non credo che sia normale annunciare con dieci giorni d’anticipo, e in udienza pubblica, che il giorno 11 dicembre Tommaso Buscetta testimonierà nel bunker nel carcere di Rebibbia a Roma. In America non sarebbe mai successo. Io non ho paura della morte. Ho 65 anni. Posso vivere altri cinque se tutto va bene. Morire prima significa soltanto lasciare mia moglie con la pensione. Non mi importa di me. Mi importa delle persone che sono con me e potrebbero essere uccise, con me. Qui non siamo più ai tempi della doppietta, e nemmeno ai tempi del mitra. Qui hanno i missili terra-aria e Cosa Nostra non è stata mai così bene armata. Nessuno pensa che regalo si farebbe alla mafia con la mia morte. E lo sa perché?».
Lo dica.
«Io al di là di quel che è Tommaso Buscetta – sono un piccolo uomo che ha soltanto dignità da vendere – sono diventato un mito. È quel mito che la mafia vuole distruggere per prendere fiato, per rialzare la testa, per rimettersi in piedi ora che rantola.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: Cosa Nostra può essere battuta. Oggi.
Subito. Basta ancora un forte e coerente sforzo. Ed è appunto la professionalità per fare quest’ultimo passo che non ho trovato. Mi sono trovato in un circolo vizioso dove le notizie passano dai giudici ai giornali, dai giornali ai giudici, dai giudici ai politici che ci imbastiscono su le loro speculazioni. E poi la solita sarabanda di giudici contro giudici. Palermo contro Caltanissetta. Caltanissetta contro Palermo. Lo chiamano il Palazzo dei Veleni. Altro che veleno, è stricnina allo stato puro. La verità è che non ho trovato più Giovanni Falcone. E voglio dire che non ho trovato più nessuno all’altezza della sua professionalità. C’è sempre il questore Gianni De Gennaro, ma accanto a lui con la toga addosso non vedo nessun Giovanni Falcone. Io ricordo – e lo ha ricordato recentemente anche Piero Grasso che fu giudice a latere al maxiprocesso,gran giudice – che il dottor Falcone mi interrogò per tre mesi, ogni giorno. Io e lui. E lui, il dottor Falcone, stendeva il verbale d’interrogatorio da solo e a mano. Non c’è stata mai una fuga di notizia, in quel periodo. E, dopo quel lunghissimo interrogatorio, il dottor Falcone ordinò 2.600 riscontri. È così – con un magistrato che lavora come una bestia e che lavora in modo rigoroso, senza prendere ogni frase per oro colato – che un pentito, un collaboratore può aiutare la giustizia».
A volte accade che i “pentiti” parlino anche di ciò che non conoscono direttamente, che riferiscano circostanze o notizie che, per la loro posizione nell’organizzazione, non hanno potuto direttamente apprendere. È il caso di Leonardo Messina. È stato un capodecina, eppure riferisce di un progetto politico e separatista che probabilmente, se mai esiste, è stato deciso dai boss della Cupola e taciuto a un capodecina.
«Voglio ricordare che io ero soltanto un soldato eppure gli uomini d’onore della commissione interprovinciale si confidavano con me. A volte, il grado non conta. Io non so, non posso sapere, come Messina abbia saputo quel che dice. So però quel che ungiudice dovrebbe fare: cercare i riscontri. Se per alcune dichiarazioni, non è possibile trovare riscontri, lasci perdere quelle dichiarazioni e si occupi soltanto delle rivelazioni che possono essere dimostrate in un’ aula di tribunale. È così che si difende quel prezioso bene che sono i pentiti. Ha ragione il professore Pino Arlacchi a dire che un pentito vale cinque anni d’indagine. E allora i giudici facciano le indagini ché il momento è favorevole... Io dico: prendete i pentiti, controllate le loro dichiarazioni con attenzione, e colpite duro. Da quello che sta avvenendo in questi giorni mi sembra invece che ci sia troppo interesse a screditare i pentiti».
Interesse di chi?
«Io sono malizioso e dico che c’ è qualcosa di politico».
Si spieghi meglio, signor Buscetta.
«Mainsomma, io sono unuomo libero, decido di tornare in Italia per raccontare quel che mai avevo voluto raccontare nemmeno al dottor Falcone. Sono venuto per mettere a disposizione della giustizia italiana tutte le mie conoscenze fino al 1984 e ad offrire la mia capacità di interpretare i fatti di mafia accaduti dopo quel periodo. Non ho nulla daguadagnare, non chiedo niente, non voglio niente. Non ho da dimostrare la mia attendibilità. È stata la Cassazione a dimostrarla. Io voglio solo essere utile. E allora perché Andreotti dice che sono tornato in Italia per rompere equilibri politici?
Ha detto proprio così: equilibri politici. E che ne so io, di equilibri politici? Che capisco io, di equilibri politici? Nulla. Zero. Zero più zero. Io mi sento un uomo piccolo così che a malapena può parlare di Cosa Nostra».
Andreotti in realtà lascia intendere che queste sue nuove dichiarazioni le sarebbero state suggerite.
«Ma chi può suggerirmi quel che devo dire se sono stato sempre io a suggerire agli altri... E poi, è difficile spiegarlo, sarebbe un’ incoerenza. Io ho soltanto un capitale da spendere ed è la mia dignità e ne ho molta e non la getto via...».
Quando e come è diventato mafioso, signor Buscetta?
«È stato tanto di quel tempo fa. Pensi che sono diventato mafioso facendo la Resistenza».
La Resistenza?
«Sì, durante le Quattro Giornate di Napoli. Partimmo da Palermo, eravamo in tanti. E tra quelli che erano con me c’era un uomo d’onore, ma io non lo sapevo. Io ero lì per difendere la mia Italia e in odio ai tedeschi. Sì, li odiavo i tedeschi. Ero un ragazzino. E a Palermo li avevo visti mangiare come noi non potevamo nemmeno sognare di mangiare. Avevano il burro, la marmellata e noi non avevamo nemmeno un tozzo di pane vecchio e io li odiavo...».
E poi a Napoli che cosa accadde?
«Accadde che quell’uomo d’onore ha visto il ragazzino deciso, che sapeva tenere la bocca chiusa e l’ha apprezzato. Tornato a Palermo, sono stato corteggiato e poi combinato.
Intanto da patriota ero diventato separatista».
Leonardo Messina ha detto che «ad uccidere Salvatore Giuliano è stato Luciano Liggio: c’è stato un compromesso tra un’ala dello Stato e Cosa Nostra...». Giuliano fu ucciso il 5 luglio 1950. Lei aveva 24 anni ed era uomo d’ onore da qualche anno. Che cosa ricorda di quel periodo?
«Messina ha detto questo?».
Sì.
«Io preferisco lasciar perdere.
Scoperchierei un pentolone e mi prenderebbero per pazzo. Io posso dire che Finocchiaro Aprile era molto vicino alla mia famiglia... Ma come dimostrarlo? Non tutti hanno ancora capito che tra uomini d’onore non c’è nulla di scritto. Che tutto avviene oralmente. Che ciò che viene detto a me, non è detto che sarà riferito a lei.
E allora perché parlare di tutto, se poi non tutto può essere verificato?».
D’accordo, non parliamo del separatismo di ieri. Parliamo del separatismo di oggi. Secondo alcuni osservatori, e anche per il pentito Leonardo Messina, è il separatismo la strada che sta imboccando il nuovo corso mafioso. Lei crede a questa possibilità?
«Sì, ci credo fermamente. Io penso che sarà questa l’ ultima spiaggia di Totò Riina conoscendo, come conosco, Totò Riina. Io ho avuto la possibilità di leggere una lettera anonima spedita dopo la morte di Falcone e dico che non siamo più al banditismo, alla criminalità, come vogliamo chiamarla la mafia? C’è qualcosa di più. C’è qualcosa di strano. Comunque, il separatismo non è la strada che imboccheranno subito. Riina aspetterà».
Che cosa aspetterà?
«Aspetterà di vedere come finisce la campagna contro i pentiti. Fino a quando sarà in corso questaf Il dottor Falcone mi interrogò per tre mesi, ogni giorno Io e lui. E lui stendeva il verbale da solo e a mano Non c’è stata mai una fuga di notiziagf Riina ha voluto annullare tutti coloro che erano amici di Salvatore Greco Il motivo di quella guerra è stato uno solo: la sete di dominio campagna, che è solo all’inizio, non ci sarà un attentato. Se la campagna non dovesse avere un buon esito, allora userà le armi. E le userà come non le ha mai usate finora. Ora che si è strusciato con i Colombiani penserà di usare anche i loro metodi. Bombe contro innocenti. Attentati contro le più alte cariche dello Stato. E con la guerra penserà anche ad una Sicilia separata».
«Non penso solo ai treni, penso anche agli aerei».
È tanto feroce Totò Riina?
«È una carogna, è una iena. È lui che mi ha trascinato nella guerra di mafia. Io ne volevo stare lontano, ero in Brasile. Telefonai per dire ai miei figli di starne fuori, di venire in Sudamerica, di raggiungermi. Riina li ha fatti scomparire. Nemmeno i loro corpi mi ha fatto trovare. Li avrà arrostiti su una graticola o li avrà sciolti nell’acido. Riina aveva paura di me, pensava che avrei potuto contrastare il suo disegno di egemonizzare tutta Cosa Nostra, pensava che gli potessi dare dei grattacapi con la parola, la sola arma che avevo».
Come cominciò la guerra di mafia? Fu solo un conflitto per il comando di Cosa Nostra o anche un conflitto di alleanze, metodi, interessi, strategie?
«Scoppiò per un motivo, tutto sommato, banale. Salvatore Greco, Cicchitteddu, era il capo di Cosa Nostra. Gli uccisero un rappresentante. Greco ne chiese conto a Luciano Liggio. Liggio non gli rispose mai. Restò un forte rancore tra i due. Quando Liggio perse un soldato nella strage di viale Lazio, durante l’agguato a Michele Cavataio, pretese un posto nella commissione.
Lo ottenne e piazzò Riina in quella che voi chiamate Cupola. Da allora Riina ha scientificamente voluto annullare tutti coloro che erano amici di Salvatore Greco. Il motivo di quella guerra è stato uno solo: la sete di dominio».
Luciano Liggio. Il traffico della droga non c’entra nulla?
«Certo, che c’entra. La guerra è scoppiata in coincidenza dei primi traffici di droga. Ricordo che quando tornai a Palermo, latitante nel 1980, vedevo scorrere fiumi di denaro, erano tutti diventati ricchi, gli uomini d’onore. Dissi a Stefano Bontade: è la fine di Cosa Nostra. Nessuno pensava più a rispettare quelle regole di solidarietà, di mutuo soccorso che erano la base dell’organizzazione alla quale io avevo aderito. In realtà, quelle regole della mafia tradizionale erano già finite tra il 1972 e il 1974. È per questo che dico che la mafia è in ginocchio. Voi non potete sapere cheeffetto fa sulle famiglie sapere che un Marchese, Pino Marchese, sta collaborando con la giustizia. Pino Marchese è molto vicino a Riina, è quasi un suo parente. La sorella di Marchese è cognata della moglie di Riina. Voi non potete nemmeno immaginare che colpo è questo».
Provi a spiegarlo.
«Vuol dire che nessuno si può fidare più di nessuno. Se anche un uomo della famiglia di Corleone ha tradito, se anche un parente di Riina ha tradito, tutti possono tradire. E nessuno più può vivere tranquillo. L’uomo d’onore tornerà a casa e non saprà se l’uomo d’onore che ha appena lasciato, al quale ha dato la sua fiducia, sarà quello che lo accuserà. Cosa Nostra – e lo dico per sapienza non per conoscenza – è affogata in un mare di diffidenza. Per questo dico che lo Stato ha vinto. Basta un altro colpo».
Un altro colpo sarebbe, senza dubbio, l’arresto di Riina...
«Non è facile. È un uomo molto malvagio. Non si fida di nessuno, non ha vizi e la Sicilia è il luogo più adatto a questo tipo di latitanza. Ma anche Riina deve stare attento...».
A chi?
«A quelli che per seguirlo nel suo delirio di onnipotenza si sono fattidistruggere. Ai Madonia di Palermo, ad esempio. Dal padre ai figli sono stati caricati di ergastoli, e lo devono a Riina. Io credo che Riina avrà molti problemi interni ed esterni. Credo che o si suiciderà o sarà ammazzato.
Questa è la mia sentenza».
Quali sono oggi, nella sua interpretazione, i legami della mafia con altre associazioni criminali tradizionali come la ‘ndrangheta e la camorra?
«’Ndrangheta e camorra non sono mai esistite autonomamente da Cosa Nostra. E questo non lo dico per sentito dire. Ho conosciuto personalmente i fratelli calabresi Piromalli come uomini d’ onore.
Personalmente ho conosciuto i napoletani Nuvoletta e Zaza come uomini d’onore. Lasciate perdere ‘ndrangheta e camorra. Non esistono.
Esiste la mafia. Esiste Cosa Nostra».
Messina ha svelato che è nelle logge massoniche che i mafiosi entrano in contatto con politici, imprenditori, funzionari dello Stato. Lei che ne sa e che ne pensa?
«Fino al 1980 io non ho mai sentito parlare di uomini d’onore massoni.
Rapporti, certo, che ce n’erano. Il cognato di Bontade era un massone, ad esempio. Nel ’70 per il golpe Borghese sono i massoni che sirivolgono a noi. E Carlo Morano, uomo d’ onore, aveva un fratello massone coinvolto nel golpe. Ma parlo di contatti non di identificazione. Se poi mi si chiede se Cosa Nostra ha rapporti con i massoni in logge riservate, questo lo ritengo non possibile, ma molto probabile».
E i rapporti di Cosa Nostra siciliana con Cosa Nostra americana?
«Sono rapporti che vanno e vengono.
Si erano interrotti negli anni Cinquanta. A noi palermitani ci consideravano i cugini pezzenti. Ci fu un riavvicinamento nel 1957 grazie al lavoro mio, di Salvatore Greco, di Gaetano Badalamenti. Sono ancora ripresi nel ’78-’79 quando un emissario di Paul Castellano, boss della famiglia Gambino di New York, sbarcò a Palermo. Oggi direi che non ce ne sono. Sono molto più stretti i rapporti con i colombiani. Dico meglio: non ci sono rapporti tra le tradizionali famiglie mafiose di Palermo e degli Stati Uniti. Ci sono invece rapporti con le famiglie palermitane trapiantate ultimamente negli Stati Uniti. È da lì che verrà il nuovo pericolo per l’Italia».
Perché?
«Io ho paura che se Riina e i suoi saranno spazzati via, quelli che scapparono durante la guerra di mafia, e sopravvissero, torneranno in Sicilia per approfittare di quel vuoto di potere mafioso. E siccome la Sicilia è mafiosa, faranno presto a riprendere tutto nelle loro mani...».
La Sicilia è mafiosa?
«Io amo la Sicilia. L’odore della mia terra ce l’ho nelle narici dovunque io sia e ho una nostalgia della Sicilia che a volte mi lascia muto per giorni. Io amo i siciliani. Siamo gente generosa, umile, che si accontenta di poco. Ma siamo vittime della mafia. Quando dico il potere di Cosa Nostra, voi non dovete pensare soltanto agli uomini d’ onore, dovete anche pensare a tutti gli uomini e ai funzionari dello Stato e ai giudici, ai poliziotti, agli imprenditori, ai politici, ai criminali comuni e ai familiari che ciascun uomo d’onore può avvicinare, controllare, ai quali può dare un ordine, chiedere un favore. E quanti sono i siciliani che possono dire di no alla mafia? Lo dico io. Il venti per cento. Come il potere di Riina, anche questa rete di complicità oggi è in crisi. È questo che voglio dire prima di lasciare l’Italia: attenzione, Cosa Nostra è in ginocchio, Cosa Nostra può essere battuta se si aiuteranno i pentiti nella loro collaborazione con indagini serie, se la stampa, la magistratura, la pubblica opinione faranno il loro dovere, se l’offensiva dello Stato non sarà inquinata come, certamente, tenteranno di fare».