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 2022  maggio 22 Domenica calendario

La madre di Del Vecchio e la lettera al collegio

«Spettabile direzione dell’orfanotrofio Martinitt. Io sottoscritta Rocco Grazia vedova Del-Vecchio faccio domanda acciò mi si potesse acconsentire di farmi presto ricoverare il mio bambino più piccolo Del-Vecchio Leonardo, dovendo io andare a lavorare e non avendo nessuno a chi affidarlo il piccolo mi starebbe su la strada e prima che mi abbia a capitarle qualche disgrazia preferisco il suo ricovero anche per una più accurata educazione. Voglio sperare che questa spettabile direzione vorrà prendere in considerazione la mia domanda e potermi presto aiutare. Faccio le mie più umili scuse e ringraziamenti anticipati, con ossequi e doveri». Firmato: «Rocco Grazia».
Sono passati ottant’anni, una vita davvero e non per modo di dire, da quella lettera disperata ma anche con un filo di speranza che Grazia Rocco «vedova Del Vecchio» scrive nel maggio 1942 per strappare Leonardo, il suo figlio più piccolo che non ha ancora 7 anni, ai rischi di una vita randagia e provare ad assicurargli un futuro. Pur di farlo accettare si impegna anche a versare 60 lire al mese all’orfanotrofio per il suo sostentamento. E proprio oggi che Leonardo Del Vecchio di anni ne compie ben 87 ed è alla guida di un impero degli occhiali, della finanza e dell’immobiliare che ha reso il suo nome e quello della sua Luxottica celebri in tutto il mondo, quelle poche righe assumono un significato ancora più profondo.
La lettera della madre, trovata appunto negli archivi dell’Istituto dei Martinitt, è uno dei tanti spunti inediti che Tommaso Ebhardt, giornalista finanziario per Bloomberg e già autore di una fortunata biografia di Sergio Marchionne, ha raccolto nel suo nuovo libro, intitolato semplicemente Leonardo Del Vecchio. E in effetti basta ormai quel nome per rappresentare l’avventura imprenditoriale straordinaria di un uomo che nasce con tutte le circostanze contro – il padre emigrato con la famiglia dalla Puglia a Milano negli Anni ’30 e morto per una polmonite fulminante prima che lui nascesse, l’infanzia in una «casa minima» di due stanze del quartiere di Baggio e poi la scelta straziante della madre di affidarlo appunto all’orfanotrofio per eccellenza di Milano, conosciuto per saper assicurare un futuro ai suoi bambini – e cavalcanon solo l’Italia del boom economico e delle fabbrichette, ma sessant’anni interi di storia ed economia del Paese, creando una delle poche grandi multinazionali tricolori.
La storia a grandi linee la conosciamo tutti, ma raccontata nei dettagli scovati dal cronista si fa ricchissima e ancora più significativa. La decisione di lasciare il Martinitt a soli 14 anni, il primo lavoro come garzone da un incisore, il passaggio a operaio – un operaio che Del Vecchio resterà di fondo per tutta la vita – il cavolo bollito che si porta ogni giorno a pranzo per le ristrettezze economiche della famiglia e le ironie dei colleghi. E poi quell’incrocio fantastico tra occasioni e ambizione, che lo porta a far crescere il primo germoglio di quella che diventerà un’immensa foresta. A 23 anni, già con moglie e due figli, già con un’esperienza di lavoro quasi decennale e un passaggio da emigrato – sempre per lavoro – in Trentino, si stabilisce a Milano per aprire un laboratorio in cui fa stampi industriali, poi si trasforma anche in produttore di pezzi per conto terzi e quel che avviene è tutto il contrario di un innamoramento, ma anzi si tratta di purissimi “animal spirits” del capitalismo: «Tra le minuterie metalliche, le parti di occhiali erano quelle che mi davano più profitto. Quindi ho abbandonato le altre componenti e ho scelto la minuteria metallica che fa parte dell’occhiale». Una scelta di partenza dettata dalla pura razionalità, ma anche una passione impossibile da domare, un’ossessione per il lavoro, per il prodotto che si trasforma quasi in una condanna a crescere, innovare e migliorare sempre «La mia regola è sempre stata solo una: diventare il migliore», spiega Del Vecchio – che pure è parco di dichiarazioni – nel libro. E allora da quella “minuteria metallica” parte una cavalcata di sessant’anni che ci porta prima in una fabbrica ad Agordo, nelle Dolomiti, poi alla scoperta di un grande mercato come quello americano, allaquotazione a Wall Street prima di quella in Italia, alla conquista di marchi gloriosi ma appannati come i Ray-Ban, sempre oltreoceano.
È anche un manuale di strategie aziendali, la biografia dell’imprenditore: l’intuizione di passare dalle piccole parti agli occhiali completi, quella di unire la produzione alla distribuzione, le campagne acquisti spesso ardite, la decisione di portare in azienda un amministratore delegato esterno e poi il ritorno al comando, la devozione con cui lo circondano i dipendenti, in alcuni casi la spietatezza negli affari in nome di quell’azienda che ritiene il bene supremo. E soprattutto la spinta inesauribile ad innovare: ha già ottant’anni passati quando corona il suo sogno di mettere assieme montature e lenti creando il colosso mondiale EssiLux da una fusione della sua Luxottica con la francese Essilor, ne ha ottantacinque quando uno dei signori della Silicon Valley, Mark Zuckerberg – che con i suoi 38 anni potrebbe essergli nipote, ma che deve aver fiutato in lui il pioniere – sceglie proprio Del Vecchio per produrre gli occhiali che promettono di portarci nel Metaverso. Il resto è cronaca, anche attuale: dagli occhiali, grazie a un patrimonio che si stimi arrivi a 30 miliardi di dollari, creazione di colossi anche nell’immobiliare, e soprattutto un assedio alla galassia Mediobanca-Generali dove l’imprenditore è convinto che si possa creare più valore proprio attraverso una strategia di crescita modellata su quella della sua Luxottica.
Ogni avventura ha un prezzo, ovviamente, e quello che Del Vecchio ha pagato si snoda su un filo che lega una famiglia di origine che si dissolve troppo presto a rapporti familiari – tre matrimoni e sei figli – non sempre facili. «Sa, ho un solo vero rammarico – dice ad Ebhardt in uno dei suoi rari momenti di confidenza – ho sempre pensato prima di tutto al lavoro. Io non ho avuto una famiglia. Non ho mai avuto un padre. A sette anni mia mamma mi ha portato in collegio. Ed è stata una fortuna, perché il collegio è diventato la mia famiglia. Stavo bene, mi hanno insegnato le regole e dato un lavoro. E poi l’azienda è diventata la mia famiglia. Solo adesso mi rendo conto che dedicando tutto me stesso alla fabbrica, ai miei collaboratori – perché ci tengo veramente, ho rispetto del lavoro e delle persone – ho passato poco tempo con i miei figli. Ecco il mio unico cruccio».