Corriere della Sera, 22 maggio 2022
Francesco Lo Voi ricorda Giovanni Falcone
«Mi resi conto che Giovanni Falcone era morto quando vidi che i medici e gli infermieri del Pronto soccorso si muovevano intorno a lui senza fare niente. Uno solo gli stava mettendo due punti di sutura sopra l’occhio, ma non certo per salvarlo».
Francesco Lo Voi, procuratore di Roma, oggi ha 64 anni. Il 23 maggio 1992 ne aveva trenta di meno ed era pubblico ministero a Palermo. Con lui, in quella stanza dell’ospedale Civico, c’era Paolo Borsellino: «Lui capì subito che non c’era più niente da fare. Dell’attentato l’avevo avvertito io, dopo essere stato avvisato dal mio agente di scorta che normalmente stava con Falcone. Paolo era dal barbiere, mi disse di passarlo a prendere e insieme andammo al Civico. Guidavo io, con l’agente affianco e Paolo seduto dietro, preoccupato perché andavo troppo forte. Aveva paura di un incidente, ma io volevo arrivare in fretta».
I magistrati siciliani che in quegli anni si occupavano di mafia erano abituati a vedere cadaveri, e pure amici ammazzati. Maturando la dote della freddezza. «Bisognava andare immediatamente a casa di Giovanni – racconta Lo Voi – per cercare qualsiasi elemento eventualmente utile a indirizzare le indagini, e per prendere gli abiti necessari a vestire la salma. Anzi le salme, perché nel frattempo era morta pure Francesca».
Nell’appartamento di via Notarbartolo Francesca Morvillo, la moglie di Falcone, aveva lasciato tutto perfettamente in ordine prima di partire per Roma: «Non c’era uno spillo fuori posto, e non trovammo nulla di interessante. A quel punto mi misi a cercare una giacca e una cravatta per Giovanni, ho scelto provando a immaginare quello che potesse stargli messo addosso».
Un compito che mai il magistrato avrebbe immaginato di dover assolvere quando conobbe Falcone, undici anni prima, muovendo i primi passi nel palazzo di giustizia di Palermo. Divennero amici, come con Borsellino che con Lo Voi condivideva anche la stessa corrente: Magistratura indipendente. Un legame forte, nel quale l’idea della morte era presente ma quasi esorcizzata. Fino alla strage di Capaci.
«Da quel momento fu evidente a tutti che Borsellino sarebbe stato il prossimo a cadere. Lui si preoccupava per noi, e noi molto di più per lui. Lo pregavamo di muoversi il meno possibile, non parlare troppo al telefono, ma Paolo pensava a tutt’altro. Era totalmente impegnato a cercare uno spunto d’indagine, individuare nomi, attivare fonti: un qualsiasi indizio nel nulla informativo di quel periodo».
Falcone s’era trasferito a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, attirandosi critiche e attacchi dalla maggioranza dei colleghi: «A me dispiacque, però gli dissi che era la scelta giusta, perché lì poteva fare molto di più di quando gli fosse consentito in Procura. Ma la magistratura italiana non era pronta nemmeno culturalmente ad accettare un visionario come lui. Che rappresentava l’emblema della ripresa e della resilienza, oggi tanto invocate; da ogni sconfitta riusciva a riprendersi per lavorare più e meglio di prima». Andato via lui tornò Borsellino, come procuratore aggiunto. «Era appena stato ucciso Salvo Lima – ricorda Lo Voi – e bisognava interpretare quel delitto. Non si potevano escludere collegamenti con un contesto nazionale complicato: le indagini di Mani Pulite in pieno svolgimento, un presidente della Repubblica da eleggere e un nuovo governo da formare. Paolo era talmente concentrato nel tentativo di capire quello che stava succedendo che non si riusciva nemmeno a seguirlo nei suoi pensieri. E quando uccisero lui, in molti pensammo ciò che disse sul momento Antonino Caponnetto: “È tutto finito”».
L’attentato di via D’Amelio, a meno di due mesi di distanza, fu quasi più deflagrante di quello di Capaci: «L’uccisione di Falcone era purtroppo nell’ordine delle cose, e l’effetto emotivo si stava riassorbendo. Fu la morte di Borsellino, con le stesse modalità terroristiche, a far saltare il tavolo e provocare la reazione dello Stato che poi si rivelerà vincente, nonostante la prosecuzione delle stragi del ’93. Al punto da rendere ancor più incalzante la domanda: qual era il disegno? Fu solo mafia?».
Dopo trent’anni, risposte convincenti non ce ne sono. «Quelle stragi si rivelarono talmente controproducenti per Cosa nostra, da far pensare che qualcos’altro ci fu», riflette Lo Voi. Qualcosa che ha anche fare anche con il mondo politico e imprenditoriale? Il procuratore soppesa ogni parola: «Premesso che non mi sono mai occupato di indagini su questo punto, se si vuole arrivare a una gestione del potere in qualunque sua forma, da un collegamento politico di qualche natura si deve passare per forza. Sennò come lo gestisco il potere? Come faccio cambiare le leggi che mi serve di cambiare? Il Consiglio comunale di Palermo non basta…».
Tornando agli esecutori materiali, proprio Lo Voi coordinò, da Palermo, l’indagine della Dia sul covo di via Ughetti dove Nino Gioè e Gino La Barbera, intercettati, confessarono la partecipazione all’attentatuni di Capaci. Poi vennero i riscontri sui telefoni cellulari usati dai mafiosi il pomeriggio del 23 maggio: «Quando ricostruimmo il quadro delle presenze con nomi e cognomi in quella zona al momento dell’esplosione ebbi i brividi per l’emozione».
La trasmissione di quelle carte a Caltanissetta fu la base del processo che, per la morte di Giovanni Falcone, sua moglie e i poliziotti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo ha portato a 39 condanne. Una risposta giudiziaria non scontata che ha segnato un riscatto, sebbene non completo. Ma la partita antimafia non è chiusa.
«Noi celebriamo il trentesimo anniversario di Capaci – conclude Lo Voi – mentre da pochi giorni è stato ucciso, in Colombia, il procuratore paraguayano Marcelo Pecci, che combatteva i cartelli del narcotraffico e del riciclaggio internazionale probabilmente collegati a organizzazioni criminali italiane. È la conferma che, nonostante i successi ottenuti, come diceva Falcone il problema della mafia non è solo siciliano, italiano o europeo, ma mondiale. E fare memoria può aiutarci anche ad affrontare la cronaca».