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 2022  maggio 21 Sabato calendario

I racconti di Papini

Papini e io (Papini e me?). Si capisce perché, con un cognome così... come dire... ordinario, locale – «Papini, t’immagini…», anzi, i’ Papini: si chiamavano allo stesso modo il pizzicagnolo da cui andava mia nonna e uno che avevo in classe alle elementari e frignava sempre... – si capisce, dicevo, perché il me stesso primo lettore, l’adolescente e poi il ventenne che macinava un libro estremo, viscerale, sconvolgente, dietro l’altro, non lo avesse mai preso lontanamente in considerazione.
Il brivido, per chi è agli inizi, è quasi sempre esotico. Non c’era, nel mio caso, quel pregiudizio ideologico che magari aveva, decenni prima, privato altri della lettura del Papini, come non ci sarebbe stato mai in futuro: avrei del resto amato Malaparte e Campo senza che il mio socialismo libertario (leggi: anarcoinsurrezionalismo) ne venisse minimamente intaccato; mi sarebbe venuto facile perdonare i pamphlet a Céline e la divisa a Jünger; e pure quel razzistone di Lovecraft avrebbe sempre avuto (e anzi al liceo aveva già) un posto speciale nel mio cuore. Ma con Papini il discorso era diverso: è che uno con un nome così, con una faccia e dei capelli così, con una giaccuccia così – lo incontrai in effetti, in effigie, sulle pagine di un libro opzionale di Italiano al liceo – insomma, uno con un nome e un aspetto che gridavano «Toscana, primo Novecento», il nome e l’aspetto di uno che poteva essere facilmente stato un amico, o più probabilmente un nemico, di mio nonno... Difficilmente si poteva credere che uno così potesse essere interessante per un giovane lettore che cominciava a farsi aprire le porte della percezione da gente come Artaud, Blake, Borges, Cortázar, Huxley e Rimbaud.
Ci sarebbe voluto proprio Borges per aprirmi gli occhi. Nella biblioteca comunale della natìa Montevarchi, dove durante i primi anni di università andavo a non studiare, ovvero a fumare, ridere, baccagliar ragazzotte e soprattutto leggere, leggere tutti i romanzi che trovavo nei suoi scaffali, proprio come faceva il giovane Giovanni Papini alla più fornita Biblioteca Nazionale di Firenze, scovai, un giorno, un piccolo e ragguardevole tesoro: la collana «La Biblioteca di Babele» curata da Jorge Luis Borges per Franco Maria Ricci Editore. E lì, tra Jack London e Franz Kafka, tra Hermann Melville e Edgar Allan Poe, tra Lord Dunsany e Pu Songling, non mi spunta fuori pure Giovanni Papini? Non solo: la raccolta di racconti Lo specchio che fugge (112 pagine, senza illustrazioni, cm 22,5 x 12, tiratura 3000 esemplari numerati, carta velina di Fabriano, legatura in brossura fresata, volume impresso a Milano dallo stampatore Franco Levi) era il volume numero due dei trentatré in cui si articolava la collana. Una scelta evidentemente deliberata, onde dar preminenza a un autore che Borges reputava «ingiustamente dimenticato». Non solo: Lo specchio che fugge, a cui diedi una chance immediata in virtù di sittanta compagnia era… strabiliante. Ebbene sì. Non men che strabiliante.
E chi adesso sta leggendo queste parole, e ha quindi in mano questo volume, sappia che l’esperienza che sta per attraversarlo, non appena comincerà la lettura, va ben oltre quella che feci io un quarto di secolo fa: qua i racconti di Papini ci sono tutti, e ancor più chiara di quella che ebbi io sarà la percezione della sua vasta ed elettrica poetica, e di quanto fraintendente fu la vulgata che, financo tra i suoi sostenitori, lo qualificò nel secondo Novecento come prima di tutto critico, saggista, scrittore di filosofia, e non tanto narratore. Giovanni Papini è invece, e prima di tutto, un grande narratore e, nello specifico, un grande, grandissimo raccontista fantastico – anzi, il supremo raccontista fantastico italiano, e come tale va valutato e storicizzato.
Ciò reca automatico il sorgere di un dubbio ulteriore: ma non sarà, forse, che tutto questo stigma anti-Papini derivi più dalla sua ostinazione a scrivere fantastico – e in racconti, per di più! – che dalla sua postura ideologica, peraltro quanto mai ondivaga? Il vieto pregiudizio crociano contro il fantasy è vivo e lotta contro di noi, e se a esso si aggiunge il fatto che il Papini narratore al romanzo, genere (o forma) oggi ancor più di allora egemone, preferì il racconto, genere (o forma) oltremodo invisa, oggi più di allora, all’italica editoria, si capisce che, forse, la sua scomodità aveva radici che andavano oltre le semplici questioni ideologiche.
Ma c’è di più. Papini, scoprii, rappresentava, e rappresenta, anzi incarna, un certo spirito del «nuovo contro il vecchio» che è connaturato a ogni giovane letterato (e ogni letterato è stato giovane, anche se alcuni hanno buon gioco a dimenticarlo): questo non solo per la sua indomita postura rispetto alle manichee distinzioni tra «generi», ma anche, e prima ancora, per il motivo che lo portava a fondare riviste su riviste: «Ogni articolo ha il tono e il suono di un proclama» scriveva il nostro, «ogni botta e battuta di polemica è scritta con lo stile dei bollettini vittoriosi; ogni titolo è un programma; ogni critica è una presa della Bastiglia; ogni libro è un vangelo; ogni conversazione prende l’aria d’un conciliabolo di catilinari o di un club di sanculotti; e perfino le lettere hanno l’ansito e il galoppo di moniti apostolici. Per l’uomo di vent’anni ogni anziano è il nemico; ogni idea è sospetta; ogni grand’uomo è da rimettere sotto processo e la storia passata sembra una lunga notte rotta da lampi, un’attesa grigia e impaziente, un eterno crepuscolo di quel mattino che sorge ora finalmente con noi». Non è forse questo lo spirito che anima qualunque giovane scrittore, e lettore, al momento di fondare la sua rivista o il suo cenacolo? Un tale spirito ci accompagna oggi, nella lettura dei Racconti di Papini, ma allo stesso tempo ci sconvolge. Perché i racconti di Papini operano un collegamento tra i suoi tempi e i nostri che in qualche modo salta tutto ciò che compone il nostro armamentario di giudizio rispetto alla narrativa: diverso da ogni altro ai suoi tempi, e ancor più diverso da ogni altro oggi che ci riappare pristino e spoglio d’ogni valutazione e rielaborazione critica o metaletteraria (giacché ignorato, frainteso o boicottato), Giovanni Papini viene, anche attraverso questo libro che avete tra le mani, a imprimere una direzione differente al canone letterario italiano. Quel canone che, ricordò Borges in un’immortale intervista a un Arbasino che ne uscì scosso se non massacrato, è sempre stato anche e soprattutto canone fantastico: chiedere a Dante Alighieri, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Tommaso Landolfi, Dino Buzzati e Italo Calvino, se si hanno dubbi in merito. Ecco, quindi, che la pietra tombale (o l’ashlar, o il pyramidion, alla maniera di Souther sopra Shew – ma a parti morali invertite) su un discorso che era futile all’origine e ha avuto fin troppo ossigeno, la viene a mettere, oggi, questo libro.
E c’è di più: se oggi, guardando a quello che accade nell’Europa orientale, con autori come il bulgaro Georgi Gospodinov, la polacca Olga Tokarczuk, l’ungherese László Krasznahorkai o il romeno Mircea C?rt?rescu venuti a impossessarsi del «fronte d’onda del romanzo» a suon di ibridazioni tra generi, suggestioni fantastiche e tanta metafisica – un impulso che ormai si sente anche più a Occidente, come dimostrano le avventure nel bardo di Saunders e Énard o i frattali multidimensionali di Tom McCarthy e David Mitchell – allora Giovanni Papini, che rispetto al suo lavoro parlò di «novelle metafisiche», si configura, oggi, alla luce della sua opera narrativa qui presentata, come il vero precursore delle avanguardie… del secolo successivo. —