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 2022  maggio 21 Sabato calendario

Le domande di Andrés Neuman (che da bimbo fu salvato dal calcio)


Più volte gli hanno chiesto come mai, a 45 anni, avesse già scritto, e riscritto (siamo già alla seconda riscrittura di Una volta l’Argentina), un memoir. La risposta di Andrés Neuman, lo scrittore argentino amato da Bolaño che, da quando aveva 14 anni, vive a Granada, in Andalusia, è lontana dal narcisismo di solito associato alla figura dello scrittore: «Raccogliere i ricordi della propria famiglia è importante anche per chi non ama scrivere. Bisogna, però, tenere conto che i testimoni muoiono e non sappiamo mai quanto tempo abbiamo. Ecco perché sono molto grato a questo libro: senza di lui probabilmente non avrei mai fatto certe domande».
La sua famiglia, che pure ha le radici spezzettate per mezza Europa, è strettamente legata alle vicende più tragiche dell’Argentina, quelle delle dittature e dei rapimenti. A un certo punto, era la fine degli anni Ottanta, i suoi genitori, due musicisti, hanno deciso di trasferirsi definitivamente in Spagna. È qui che Andrés è diventato uomo, poeta, autore di romanzi bellissimi (Il viaggiatore del secolo, Parlare da soli, Frattura), racconti (Vite istantanee) e non fiction (Anatomia sensibile). E, di recente, anche padre.
La storia di questo libro inizia con una lettera di sua nonna materna Blanca.
«Sono stato un bambino che faceva molte domande, affascinato dai ricordi dei miei nonni forse perché ossessionato dalla morte, sia mia che dei miei genitori. Quando il mio nonno materno, il violinista, si uccise, non riuscivo a smettere di preoccuparmi per mia nonna Blanca. Così, lei in Argentina e io in Spagna, abbiamo iniziato a scriverci delle lettere. Io le chiedevo di raccontare della sua vita e man mano che ricevevo le sue risposte pensavo: “Ma questo è un romanzo fantastico!”. E lo era letteralmente, perché quelli erano racconti sulla nonna di mia nonna, vissuta cento anni fa, praticamente un fantasma. Alla fine mi sono deciso a espandere quelle lettere e riempire i buchi, facendo ricerche come un vero family detective. Ho iniziato a chiedere a mia madre e mio padre e, quando c’erano delle contraddizioni, dopo qualche tempo tornavo da loro e gli chiedevo di raccontare tutto da capo».
Uno degli episodi più drammatici è quello del rapimento e del miracoloso rilascio da parte del regime di sua zia Silvia.
«Lei è stata una tra i pochi desaparecidos a essere riapparsi. Tutti, in famiglia, sapevano del rapimento e delle torture, ma nessuno, né i genitori né i fratelli, avevano mai conosciuto i dettagli. Un silenzio durato pressappoco 35 anni. A me avevano detto che lei non ne voleva parlare, ma quando stavo ormai per finire di scrivere questo libro decisi di telefonarle, dicendole che quella poteva essere l’ultima occasione per raccontare quello che le era successo. Mi diede una risposta spiazzante: “Sono molto sollevata che tu me lo abbia chiesto, perché nessuno lo ha mai fatto”. Abbiamo parlato per due o tre ore, e il suo racconto aveva una precisione, un controllo narrativo e una scioltezza tale che era come se se lo fosse continuata a ripetere nella testa per tutti quegli anni. Da quella esperienza ho capito che non era solo lei a non volere raccontare, ma anche noi a non volere chiedere, e che è così che una famiglia, o un Paese, costruiscono il silenzio».
Dopo che cosa è successo?
«Sono andato in Argentina per farlo leggere a mia nonna Dorita, sua mamma. Dopo, mi ha abbracciato stretto, mi ha baciato e mi ha sussurrato, molto teneramente a dir la verità: “Sei un figlio di puttana"».
La sua famiglia è originaria dell’Europa centro orientale. Che cosa prova nei confronti della guerra in Ucraina?
«È facile ipersemplificare fenomeni troppo complessi, e non voglio nemmeno riprodurre la tipica struttura dei social, “mi piace”, “non mi piace” – strano, tra l’altro, come combattiamo contro la binarietà di genere, ma siamo poi binari su tutto il resto, o bianco o nero. Sono chiaramente contrario a questa occupazione illegale e penso che Putin sia un criminale di guerra, ma per fare valutazioni bisognerebbe prendere in considerazione la storia non solo degli ultimi mesi, ma degli ultimi anni. Uno degli aspetti che mi preoccupano di più è la minaccia nucleare, giocare con la vita dell’intero pianeta ricattandolo emotivamente. Una vera tortura psicologica. Per quel che riguarda, invece, la storia della mia famiglia, ho trovato particolarmente insultante la giustificazione nazista dell’attacco: accusare un presidente di origini ebree di uccidere degli ebrei è disgustoso».
Che ruolo dovrebbero avere gli intellettuali in queste situazioni?
«Credo nel coinvolgimento di ciascuno, non in quello degli intellettuali in quanto tali. Io voglio sentirmi coinvolto non perché sono uno scrittore, ma perché vivo su questo pianeta. Uno dei problemi della democrazia occidentale è che deleghiamo costantemente i nostri doveri a qualcun altro che paghiamo, o votiamo, perché facciano cose che spetterebbero a noi».
Che relazioni ha lei, con le sue radici ebree?
«Non sono stato cresciuto come un ebreo, ma sono molto affezionato a quella cultura. Dal lato paterno, erano ebrei da generazioni, da parte di mia madre invece erano in pochi. Sono stato cresciuto senza un’identità precisa, non sono stato né battezzato né circonciso. L’unica cosa che mi dispiace davvero è che mio padre non mi abbia insegnato l’yiddish, che è una lingua bella e importante».
Nella sua infanzia, racconta nel libro, il calcio ha avuto un ruolo fondamentale.
«Soprattutto in passato, il calcio era una specie di linguaggio universale tra maschi. È stato lui a darmi la possibilità di entrare in contatto con i miei compagni con i quali avevo ben pochi punti in comune a parte un pallone. Si immagini: ero un bambino magro, piccolo, mezzo ebreo, con la mamma violinista e che, da grande, sognava di diventare un poeta! Inoltre, frequentavo una scuola maschile piuttosto violenta di Buenos Aires, dove dominava il patriarcato. È probabile che proprio grazie al calcio, e a giocatori fisicamente “imperfetti” come Maradona, sono riuscito a evitare molte botte! Va anche detto però che, poiché non esistono territori puri, anche in quello spazio di supposta libertà si era continuamente sottoposti a pregiudizi machisti».
Ha scritto: «In pieno colpo di Stato, alcuni membri della mia famiglia avevano deciso di concepire un figlio. Non sono sicuro che sia un paradosso. Arrivavano nuove vite e tutto sarebbe andato meglio. Ne erano convinti». Lei stesso è diventato padre per la prima volta durante la pandemia. La storia si ripete?
«Quando ho saputo che avrei avuto un figlio ho pensato: “Questo è il modo che la mia famiglia ha di procreare nel bel mezzo di una guerra, una dittatura, una situazione pericolosa”. È qualcosa di molto umano, rispondere alla morte con la vita, basti pensare alla guerra in Ucraina: anche se tendiamo a non ricordarcene, le donne continuano a partorire anche sotto le bombe. Per quel che riguarda mio figlio, è avvenuta poi una cosa strana: anche se può sembrare un paradosso, diventare padre mi ha reso più orfano. Quando è nato, infatti, non ho potuto fare a meno di pensare che mia madre, morta anni fa, non avrebbe potuto conoscerlo e fargli da nonna».
Che cosa gli racconterà dell’Argentina?
«Innanzi tutto, gli ho dato un nome argentino, Telmo, perché io sono cresciuto nel quartiere di San Telmo e perché Telmo è il santo di marinai e musicisti, in particolare proprio dei violinisti. Nel suo nome, quindi, ha sia la musica che il viaggio, ed è come se gli avessi costruito un ponte che un giorno, se vorrà, potrà attraversare». —