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 2022  maggio 21 Sabato calendario

Il padre di Lansdale era analfabeta. Intervista

In Moon Lake, l’ultimo romanzo di Joe Lansdale, c’è una città sommersa da un lago: è la realtà, ma sembra quasi una metafora per i segreti che quella città nasconde. In Texas esiste un solo lago naturale, tutti gli altri sono artificiali e sono stati creati così. Ci furono persone che non vollero lasciare la propria casa perché non credevano che la loro valle sarebbe stata inondata davvero. «E se li portò via l’acqua», mi racconta Lansdale dal suo soggiorno di Nacogdoches, nel Texas orientale. «I villaggi sommersi mi hanno sempre affascinato», aggiunge. Ricorda la storia di un amico, che da bambino era a pesca con il padre, e gli sentì dire: «Sai che qui sotto c’è un edificio? Ci si può camminare sopra», per poi saltare giù dalla barca e mettersi a nuotare sui tetti. «Mi sono ispirato a storie come questa, ma anche alla vita nelle piccole cittadine del Texas, tipo la mia, che è un po’ particolare».
Dice spesso che la sua regione è molto diversa dal Texas come uno se lo immagina.
«Il Texas orientale, che da solo è grande quasi quanto l’Italia, non somiglia affatto al resto dello stato: è pieno di alberi, acqua, paludi. Somiglia alla Louisiana, con cui peraltro confina. Politicamente siamo un miscuglio, anche se il Texas non è conservatore come si pensa; più che altro la gente va poco a votare».
Lei fu tra quelli che nel 2016, a malincuore, predissero la vittoria di Trump. Cosa pensa di Biden, soprattutto ora, in mezzo a una guerra?
«Mi piace, e penso stia facendo del suo meglio, specie considerando che nessuno sa davvero cosa fare con la Russia. Trump poteva aiutare l’Ucraina e non l’ha fatto, mentre adesso gli USA si stanno muovendo più di altri. Temo però che Biden perderà le prossime elezioni: non è molto amato».
Suo padre era analfabeta e lei è uno scrittore conosciuto in tutto il mondo. Com’è stata la sua infanzia, e come si è avvicinato alla lettura?
«Eravamo meno poveri di tanti, ma certo non facevamo parte della classe media. La mia passione per i libri è nata con i fumetti. A Mount Enterprise, dove sono cresciuto, c’era una bella biblioteca, e d’estate anche un furgoncino che faceva da biblioteca itinerante: si potevano prendere tre libri a testa, ma io avevo un amico che mi lasciava usare la sua tessera, quindi potevo prenderne sei ogni paio di settimane, e passavo l’estate così. Il sabato era il mio giorno preferito: di mattina andavo a leggere in biblioteca, poi prendevo qualcosa da mangiare in un alimentari lì vicino, e passavo il pomeriggio al cinema, vedendo due spettacoli uno dopo l’altro. Il resto del tempo lo trascorrevo al fiume e nel bosco, come Huckleberry Finn. Sono venuto su dal niente e ho fatto fortuna grazie a una cosa che amo: rappresento in pieno il sogno americano, che non c’entra nulla con la ricchezza. Tanti fraintendono questo concetto».
Come lo definirebbe, allora, il sogno americano?
«L’idea che chiunque possa avere un buon lavoro e un tetto sulla testa, prendersi cura della famiglia; che ci possano essere soldi a sufficienza per vivere, e anche qualcosa di più. Il sogno americano non è mai stato una promessa: è un’opportunità».
Se dovesse spiegare al se stesso dell’epoca che diventerà uno scrittore di successo, che cosa gli direbbe?
«Che non è una cosa romantica, e bisogna lavorare tutti i giorni. Mi fanno imbestialire, però, gli scrittori che dicono di soffrire per la loro arte. Io mi sento come se mi avessero toccato con una bacchetta magica: essere pagato per fare ciò che farei gratis è un privilegio. C’è poi un altro tipo di scrittore che detesto, ed è quello che sacrifica la famiglia alla scrittura. Quando ho iniziato ad avere successo, e ho cominciato a stare a casa a scrivere a tempo pieno mentre mia moglie lavorava, ero io che badavo ai bambini. Mio figlio non dormiva mai. Scrissi una sceneggiatura con lui in braccio, che mi prendeva a martellate nelle palle con un martelletto di plastica. La famiglia viene sempre per prima, la scrittura per seconda».
Lei è stato fattore, bidello… Finché sua moglie, non potendone più di vederla scontento perché non scriveva, le disse: prenditi tre mesi, ai soldi ci penso io, ma alla fine dei tre mesi vedi di avere qualcosa di decente.
«Sì, in pratica mi ha costretto. E per novanta giorni ho scritto un racconto al giorno, uno peggio dell’altro, ma almeno mi ci sono messo. Avevo paura di lei!». (Ride, ndr)
Era la sua prima moglie o la seconda, Karen?
«Con la prima siamo stati sposati poco più di un anno e non ha mai capito il mio desiderio di scrivere. Questa era Karen, naturalmente: la grande moglie. Tra poco faremo cinquant’anni di matrimonio.
Come vi siete conosciuti?
«Qui a Nacogdoches. È stata lei a chiedermi di uscire, pensava che io non mi sarei mai deciso. Cosa non vera: per me è stato amore a prima vista. E conoscerla è stata la più grande fortuna della mia vita. Anche se scherzando diciamo sempre che l’ho sposata perché aveva una macchina da scrivere».
Mi racconta?
«Io scrivevo a mano, e mandai un plico di fogli a una rivista sperando mi pubblicasse un racconto o due, ma risposero: “Non leggiamo proposte scritte a mano”. Da lì imparai a battere a macchina, sulla macchina da scrivere di mia moglie, appunto. I novanta racconti in tre mesi li ho scritti così. Anni dopo ne ho venduti tre o quattro, ma tanti erano orrendi, quindi con Karen abbiamo fatto un falò dei più brutti, bruciando anche le lettere di rifiuto, circa un migliaio. Adesso un po’ mi dispiace, perché alcune erano gentili, ci fu chi mi disse che un certo racconto magari non era granché, ma in me vedeva del talento».
Ha cominciato a occuparsi di quelle che oggi vengono definite questioni sociali molto tempo fa: l’etnia, la sessualità. Com’è cambiata l’editoria da allora?
«Penso che un tempo ci fosse comunque un’apertura, purché certi temi fossero mascherati: il diverso esiste da sempre nella fantascienza, per esempio, o nei fumetti di supereroi, solo che è un diverso non umano. Ora le cose stanno cambiando, per fortuna. Lo spunto per Leonard (uno dei due protagonisti del ciclo di Hap e Leonard, da cui è tratta una serie tv di successo; Leonard è afroamericano, gay ed ex militare, ndr) è venuto dal fatto che vedevo i personaggi gay descritti sempre come macchiette unidimensionali: il vicino di casa adorabile, eccetera. Ma le persone vere non sono così. Tanti lettori gay mi hanno scritto dicendomi quanto apprezzassero il fatto che la sessualità di Leonard passasse in secondo piano, nel senso che non era il fulcro della storia».
Com’è la sua routine di scrittura?
«Intanto, non credo nell’ispirazione che viene dall’alto, nella voce della musa e scemenze del genere. Credo nel subconscio. A volte devo imparare a metterlo a tacere, altrimenti penserei tutto il giorno alle mie storie e non potrei vivere. Scrivo tre ore tutte le mattine, sette giorni su sette, e ogni giorno cerco di arrivare a tre-cinque pagine. Tendo a revisionare mentre scrivo, quindi non faccio mai più di una stesura: finché non sono soddisfatto non vado avanti. Ora col computer non saprei dire quanto tengo e quanto butto via. Una volta, con la macchina da scrivere, era più evidente: il cestino nel mio studio era sempre pieno.
Pensa mai di smettere? E come si immagina?
«Come un vecchiaccio triste. No, non credo che smetterò mai». —