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 2022  maggio 21 Sabato calendario

Intervista a Massimo Popolizio

Dice che la cosa che più gli fa orrore è cadere nel caricaturale.
E mentre lo dice, sfiorando il pizzo che adorna il mento, lo immagino nel suo M, lo spettacolo teatrale nel quale interpreta uno straordinario Mussolini senza quel verismo o quella mimesi che adottarono attori come Mario Adorf e Rod Steiger. «Certo, avrei potuto rasarmi il cranio, adottare pose marziali» dice «ma il segreto del teatro, del buon teatro, non è nell’imitazione ma nella rapidità con cui il pubblico si dimentica del prevedibile e accoglie l’inaspettato».
La conversazione con Massimo Popolizio non può che iniziare da qui, da un successo teatrale non scontato, che ha rappresentato un vero e proprio ritorno alla normalità, dopo gli anni durissimi dei condizionamenti e delle chiusure.
Vive sobriamente in una casa a Roma, quasi una dependance di uno spazio più ambizioso che si trova dalle parti di Todi: «Lì, ho perfino una Wunderkammer dove colleziono fossili, per lo più conchiglie delle più diverse specie». Gli dico che Freud lo avrebbe accolto a braccia aperte, mi dice che di analisi ne ha fatta tanta: paure, qualche depressione, il sentirsi a volte spiazzato in luoghi che non riconosce. Eppure è un uomo saldo, forte, incisivo.
Dai l’impressione della roccia.
«Anche le rocce si sfaldano, a volte. Sono spesso in tensione. Sai qual è il momento in cui mi torna il sorriso e mi sento a mio agio? Quando lo spettacolo finisce, il pubblico applaude e io guardo con riconoscenza il resto della compagnia e penso seriamente che domani è un altro giorno e che tutto ricomincerà da capo».
Che cos’è, insoddisfazione, tristezza o cosa?
«Non mi riesce di essere felice per ciò che ho, per quello che posseggo e che dovrei amare o rispettare perché fa parte di me, del mio lavoro, delle mie intuizioni, della mia fatica. E invece no. Credo che sia davvero una forma di insoddisfazione. È come spostare il traguardo in avanti. Tocco una meta e sento interiormente di non averla raggiunta. Possibile? Mi dico. Ho provato con l’analisi. Ma alla fine ho capito che non è una questione di interno, diciamo pure di testa, è che il mondo, il mio mondo, mi funziona così».
Non diresti mai “che ci faccio io qui”?
«Per lungo tempo ho continuato a ripetermelo. Mi pare che il primo a sentirsi con questo senso di spaesamento sia stato Rimbaud. Ma la sua poesia precocissima aveva ucciso tutto il resto. Doveva fare i conti solo con la vita. Se io invece penso al mio teatro lo vedo come la cosa più vitale e necessaria che mi avvolge e mi coinvolge. Ma è un padrone esigente. Mi dà la sensazione della massima libertà ma, al tempo stesso, mi tiene incatenato».
Quando hai sentito che quella del teatro era la tua strada?
«I primi contatti avvennero frequentando la parrocchia di San Pancrazio a Monteverde. Eravamo una famiglia di quattro figli, in una casa piccola. La tendenza era stare il più possibile fuori. E il teatro parrocchiale fu una buona alternativa. Lì cominciai a mettere in scena delle cosette. I miei genitori non avevano una cultura teatrale. Le poche occasioni per me si riducevano alle scelte di un professore che un paio di volte l’anno ci portava a uno spettacolo».
Ci andavi volentieri?
«Sì, mi piaceva. Ricordo che soffrivo enormemente del casino e degli schiamazzi che i miei compagni montavano durante la recitazione. Pensavo che gli attori sul palco meritassero rispetto. Ma la gran parte degli studenti considerava quelle ore come una libera uscita. Ecco, questo è lo sfondo su cui a un certo punto è maturata la decisione di iscrivermi all’accademia di arte drammatica, la Silvio D’Amico a Roma».
I tuoi come accolsero la cosa?
In casa non si navigava nell’oro. Io ero il più grande dei quattro figli e quando dissi a mio padre che avrei fatto l’accademia, lui rispose: “D’accordo, ma dovrai pensare a mantenerti”. Mi sono arrangiato».
Come?
«Con i lavoretti più diversi. A un certo punto, con un certo successo, cominciai a vendere casa per casa set di pentole a vapore. Si facevano anche prove di cucina. Le signore che assistevano alla preparazione, incoraggiate dalla mia parlantina, erano ben disposte.
Facevo il piazzista e lì, in quel luogo triste dell’anima pubblicitaria, sentivo il primo vagito teatrale. A 18 anni, ormai economicamente autonomo, sono andato via di casa».
Fai l’Accademia e poi che succede?
«Incrociai Luca Ronconi, proprio alla fine del corso.
Vide un mio saggio del secondo anno e venni scelto per una tournée con Adriana Asti. Paga al minimo sindacale. Lui alla regia. Fu la mia prima esperienza professionale».
Com’era lavorare da subito con un grande della regia?
«Come è stato lavorare per più di trent’anni con lui, questo è il punto vero. All’inizio c’è un aspetto emotivo che ti coinvolge, poi cominci a chiederti che cosa esattamente un uomo così voglia da un attore».
Credo che tu abbia avuto il tempo per capirlo.
«C’è stato un momento in cui sono collassato. Era il 2006 e Ronconi metteva in scena Atti di guerra, una trilogia di Edward Bond, dove in un pianeta devastato dai conflitti e dalle carestie un uomo interpreta vari ruoli. Ero io l’attore e dopo un paio di repliche cominciai a stare male. A un certo punto dello spettacolo, durava 9 ore, svenni e mi ricoverarono. Per alcuni anni interruppi il rapporto con Ronconi. Mi colpì il fatto che in quel periodo anche Luca avesse scoperto di stare male».
In un incontro che ebbi con Ronconi, mi raccontò che la sua vita era cambiata dopo la dialisi.
«Cambiata, certo, ma conservava un’energia pazzesca, nonostante i suoi reni non funzionassero più. Me ne resi conto quando tornai a lavorare con lui inLehman Trilogy. Per tutta la prima settimana di prove non feci che piangere. Mi sembrava di essere nuovamente in quello stress mentale che ci aveva divisi. Avevo una fottuta paura di rivivere la stessa crisi. Poi lo guardavo e dicevo: ma come fa? Da dove tira fuori la forza necessaria? Dirigeva da seduto. Appollaiato su una sedia distribuiva ordini. Temo sapesse di non avere più molto tempo e non voleva perdersi dietro questioni secondarie. Non l’ho mai visto lavorare con tanta precisione come in quei giorni. E poi è morto. E a quel punto è accaduta una cosa straordinaria».
Cosa?
«La compagnia si è compattata e lo spettacolo ha fatto un salto di qualità incredibile. Era come se tutta l’energia di Luca fosse passata a noi. A noi che dovevamo affrontare uno spettacolo difficilissimo. La cosa buffa è che Ronconi provava una vera idiosincrasia per le malattie. Guai se qualcuno gli confidava le proprie difficoltà. Ricordo che durante le prove di uno dei suoi spettacoli, un attore piuttosto grasso cadde riverso sul palcoscenico. Noi tutti, ovviamente, ci fermammo preoccupati. Luca con passo perentorio scavalcò il corpo e guardandoci disse: “non ho mica chiamato la pausa!”.
Forse non se ne era neanche accorto.
«Non lo so. Ma non penso che Strehler o Visconti fossero meno crudeli. Dalle grandi personalità non puoi pretendere che siano anche comprensive. Quello che questi straordinari animali di teatro ti danno lo rivogliono indietro con gli interessi».
Anche tu sei un bell’animale di teatro.
La parola animale mi fa pensare all’habitat in cui vive.
Quasi tutto è regolato da stimoli esterni, per questo mi capita di dire ai giovani, cui cerco di insegnare qualcosa, di lasciar perdere il pathos interiore. Non è da quello che si giudica un attore. Mi piace ricordareche vengo da un teatro di interpretazione e non dall’introspezione».
Non pensi che un po’ del tuo io interiore serva?
«La vita, nei suoi modi diversi, anche imprevedibili, entra nel tuo lavoro, ma non ho mai creduto che la vera molla per chi decide di fare teatro sia la necessità di esprimere se stessi. Il diritto a esprimere ciò che hai dentro non giustifica il tuo mestiere. Puoi avere tutta la carica emotiva che vuoi ma recitare è un’altra cosa.
Intendiamoci, non sto dicendo che emotività e passione non servano, anzi, la loro presenza è indispensabile. Ma è l’osservazione, l’animale che cerca il modo di adattarsi all’ambiente, la grande risorsa».
Interno ed esterno non sono simmetrici, questo vuoi dire?
«L’interno esiste tanto quanto l’esterno. Ma non è questo il punto. Conosco, perché l’ho provato sulla mia pelle, la forza anche sconvolgente del proprio interno. So che facendo l’attore ti esponi a dei lati della tua persona che non pensavi di avere».
Per esempio?
«Puoi scoprire di essere un individuo fragile, magari infelice, come si diceva all’inizio, oppure accorgerti che non hai affatto, come pensavi, la tua vita sottocontrollo. Una delle prime cose che devi imparare a sviluppare è l’immaginazione. E questa non si lega solo al proprio sé profondo. L’immaginazione è varia, mutevole, cangiante. Superficiale. Visionaria. Molto deve alle cose che accadono. Quando recito non ho ferite, ma so che devo farle vedere. Per questo il teatro è la grande menzogna a cui devi credere. Se non ci credi per primo tu il pubblico non le vede. Capisci?».
Ma è un lavoro più sulla testa o sul corpo?
«La recitazione è l’alterazione di uno stato organico.
C’è l’io mentale, l’io che struttura, l’io che analizza. Ma il risultato è sempre organico. Sei in scena perché respiri, perché hai un corpo, perché il tuo sguardo è dentro lo spazio fisico. Quando sto in uno spazio percepisco esattamente che la mia voce è lì dentro quel perimetro e da nessuna altra parte».
Un’altra cosa che fai benissimo è leggere.
«Leggere è un mestiere. Nella lettura ascolti e riproduci il ritmo della scrittura. E la voce è lo spartito. Come diceva Jannacci: però ci vuole orecchio».
È abbastanza naturale?
«Mica tanto. Quando ho letto All’ombra delle fanciulle in fioremi accadeva di imbattermi in periodi di trenta righe senza un punto, e lì il ruolo principale è svolto dalla voce che si trasforma. È come un’onda su cuiprovi a fare surf. Tra l’altro capisci immediatamente se una traduzione funziona o no. E soprattutto le variazioni della voce sono il modo per costruire una sorta di montaggio uditivo».
Fai anche molto cinema.
«In questi due anni meno. Per me è una specie di bancomat. Però mi piace: è un baraccone dove si realizzano cose serissime. Da ragazzo avevo il terrore di essere ripreso da una macchina. Già alle sette del mattino, nella sala trucco, vivevo tensioni fortissime.
Poi ho capito che il cinema è anche la capacità di dosare le proprie energie. Sapere quando servono.
Risvegliarsi al momento giusto e poi ripiombare nel letargo dell’attesa e della noia. Mentre a teatro sei sempre in primo piano. Teatro e cinema sono come delle bolle che ti portano lontano dalla vita. A me piace questo distacco. Mi piace la tournée. Recitare è sempre meglio che avere a che fare con i problemi della vita».
Sarebbe stato un problema avere figli?
«Immagino che tu me lo chiedi perché l’ho dichiarato una volta. Forse la paura ha avuto un ruolo. Forse una forma di egoismo. Forse il ricordo di mio padre che con i suoi 4 figli voleva disperatamente un angolo per separarsi da tutto il resto della famiglia. Forse tutto questo è un grande alibi o magari semplicemente non ho voluto figli perché non sono mai cresciuto.