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 2022  maggio 21 Sabato calendario

Ricordare Dino Buzzati

Jorge Luis Borges lo inserì nella lista dei cento titoli letterari imperdibili, eppure noi abbiamo faticato ad accoglierlo tra i migliori. Forse per quella sua attitudine a conciliare cultura alta e bassa. Come farà Umberto Eco. Ma prima
Nel 1985, a un anno dalla morte, lo scrittore argentino Jorge Louis Borges era considerato il vate indiscusso della letteratura mondiale. Come autore, certo, ma anche come lettore impareggiabile, dotato di infinita erudizione. Così l’editrice Hyspaméria di Buenos Aires gli aveva chiesto di curare una “Biblioteca personal”, cento libri da lui considerati le vette letterarie del tempo. Se Borges, l’unto dalle Muse, li avesse raccomandati, si aveva la certezza che fossero tesori indiscutibili. La morte del curatore lasciò incompiuta l’opera. Ma essa fece in tempo a portare sul podio un unico libro italiano, Il deserto dei tartari di Dino Buzzati.
Strano destino, quello di Buzzati. In Italia facciamo ancora a gara per rivalutarlo, in occasione degli anniversari, poiché il suo nome non era neppure citato nelle vecchie antologie. Lo scrittore ha pagato quello che una sua foto sintetizza molto bene: in canottiera, al tavolo da disegno ( era pittore, oltre che autore e giornalista), con alle spalle – appesa in libreria – una locandina di Diabolik, il “re del terrore” da edicola, inventato nel 1962 da Angela e Luciana Giussani, due belle e colte signore della buona borghesia milanese.
Buzzati ha riunito ( quante volte è stato detto, ma ogni volta si deve ricominciare) cultura “alta” e “bassa”, cronaca nera e fantasia da fumetti, reportage di guerra e realismo magico, notti della “mala” milanese e Kafka, spleen esistenziale e orrori alla Poe. Oreste del Buono e Umberto Eco, in quegli stessi anni, avranno anche sdoganato lo stesso Diabolik e Mike Bongiorno; Fruttero e Lucentini, sempre all’epoca, saranno anche andati dalle stanze di Einaudi ( dove lavoravano con Calvino, Ginzburg e Vittorini) alla direzione della collana di fantascienza Urania. Ma in Italia restiamo congelati in una malcompresa idea di “estetica” che avrebbe avuto Benedetto Croce, in nome della quale abbiamo separato pani ( della cultura) e pesci (del presunto sottobosco).
Borges non ebbe questi pregiudizi. Sintetizzò così la biografia buzzatiana: «Nasce nel 1906 nell’antica città di Belluno, in Veneto e vicino al confine austriaco. Era un giornalista e in seguito si dedicò alla letteratura fantastica. Il suo primo libro, Barnaba delle montagne, risale al 1933; l’ultimo, I miracoli di via Morel, al 1971, un anno prima della sua morte». Quanto alle ispirazioni letterarie, il grande argentino suppose si trovassero in Poe e nel romanzo gotico, dimostrando anche di conoscere bene l’autore, quando si limitò ad aggiungere che altri «hanno parlato di Kafka». Un paragone che venne affibbiato spesso a Buzzati, e che lui mal sopportò.
Oggi, finalmente, anche se a fatica, Buzzati è diventato polifunzionale. Le cronache giornalistiche e “terrestri” ( compresa l’amata “neraccia”) sono state raccolte in volumi, così come gli elzeviri, le critiche d’arte, i racconti, le fiabe e i disegni. Anche i romanzi “minori” sono stati rivalutati, accanto alle sue sconcertanti profezie: ha raccontato, per esempio, un mondo attanagliato dalla pandemia e un altro in cui siamo prigionieri di dispositivi mobili che veicolavano continuamente immagini. Persino i suoi aspetti “religiosi” sono stati scoperti, grazie all’attenzione dedicata all’autore, in occasione del quarantennale dalla scomparsa, da parte diAvvenire e Osservatore Romano.Ma la sua opera maggiore, Il deserto dei tartari, pur altrettanto scandagliata con lenti da ingrandimento, resta ancora avvolta in un inverosimilemistero. È, come noto, il romanzo dell’attesa. Pubblicato nel 1940, aprì all’autore la strada della fama. Vi si narra la vita dell’ufficiale Giovanni Drogo, assegnato alla Fortezza Bastiani, ultimo avamposto ai confini di un regno immaginario, da dove si domina una sterminata pianura. Da questo deserto si attende l’attacco dei Tartari. La vita si svolge secondo le regole della disciplina militare, la ripetizione delle abitudini è ossessiva, l’unica speranza è l’arrivo dell’atteso nemico e la battaglia finale. A Drogo verrà decretata una “inabilità” al servizio e, quel giorno, vedrà la Fortezza eil suo selvaggio ambiente trasformarsi in qualcosa d’altro, come se vivessero di vita propria. In ultimo Drogo ne diventerà il vicecomandante, restandovi quarant’anni. Già sul letto di morte, sentirà solo da lontano i clangori della battaglia. E comprenderà che la tenzone tanto attesa, cui siamo tutti chiamati a partecipare, non era tanto quella con la morte, ma con la paura di morire.
Borges, in proposito, ha parlato di “dissoluzione del tempo” e di influenze della filosofia presocratica eleatica (Parmenide: tutto è statico e immutabile, a differenza del “panta rei” eracliteo). Ma il paesaggio della Fortezza, che d’improvviso diviene “sacro” ( la metafisica dentro l’apparente banalità) strappa un’immagine alla “visione del vuoto” della mistica asiatica (in letteratura nella tetralogia di Yukio Mishima, per esempio) e la trapianta nella Milano del fascismo e della guerra. Letteratura fantastica, è stata definita. Ma forse c’è da approfondire. Per dirne una, l’identità dell’atteso nemico, i Tartari. Discendenti da Gengis Khan, imparentati con l’inferno (Tartaro è il nome del fiume oscuro e sotterraneo nella Teogonia di Esiodo), nell’immaginario collettivo erano associati, dal Medioevo in poi, alla completa distruzione di ogni civiltà. In questo caso, mai vorremmo che fosse un’altra buzzatiana profezia.