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 2022  maggio 21 Sabato calendario

Intervista a Ice One

Selvaggio, liberatorio, antiborghese. Quando la dinamite sonora del rap lo attrae nella sua orbita esoterica Ice One, 56 anni, all’anagrafe Sebastiano Ruocco, è un dj emergente affamato di arte che, da Ostia, intuisce la portata dirompente di un genere destinato a diventare la sua vocazione. Quarant’anni di carriera, vissuti da mentore socratico, che festeggerà il prossimo 8 giugno con un party all’Hotel Butterfly di Roma. Fresh like future, fresco come il futuro e proiettato verso nuove scoperte. Pioniere di una cultura che ha saputo riplasmare oltre l’emulazione dei modelli americani, come gli riconosce «l’architetto dell’hip hop» Afrika Bambaataa: «Ice One non ha seguito l’onda ma ha contribuito a formarla, non posso che considerarlo uno dei padri fondatori: lui c’era dal giorno zero». Polistrumentista, ballerino di breakdance, graffitista, produttore: sua la musica di Quelli che benpensano (1997), successo di Frankie hi-nrg considerato dal rapper Marracash il brano hip hop italiano più riconoscibile.
Come nasce l’attrazione per il giradischi?
«A 12 anni già mi intrufolavo nei club. Un giorno un amico, Niky dj, mi fece toccare per la prima volta due giradischi e partii subito bene. Mi chiese di aprire le sue serate la domenica e a 16 anni mi ritrovai a suonare al Marilyn, un locale di Ostia Antica. In quel periodo un altro dj, Mauro Casazza, mi segnalò a Marco Trani (fuoriclasse della consolle scomparso nel 2013, ndr) che avevo ascoltato al Krypton. Avevo appena iniziato a scratchare (manipolare ritmicamente i vinili, ndr), tecnica che avevo capito studiando Faber Cucchetti, tra i primi a utilizzarla in un mix dal vivo o in radio su Dimensione Dance».
Come avvenne l’incontro con Trani?
«Casazza lo portò a casa mia: mi ascoltò, gli piacqui e iniziò la collaborazione. Mi coinvolse in eventi importanti, ricordo una serata con La Toya Jackson, sorella di Michael, che presentava un disco, ma il sodalizio durò poco... La mia valigetta si riempiva di dischi particolari e Trani se ne accorse: “Vedo che ti piace il rap, seguilo, ma non è il mio genere”».
Nei primi anni Ottanta il rap in Italia era semisconosciuto: come è riuscito un ragazzino di Ostia a entrare in contatto con quello che succedeva dall’altra parte dell’oceano?
«Il rap è arrivato poco alla volta comprando i dischi. Mi piacevano i pezzi che ti coinvolgevano subito nel ballo: ritmici, essenziali, selvatici. All’epoca la gente ne aveva quasi timore, il rap circolava di più nei locali gay, che erano all’avanguardia. La sua derivazione principale era la disco, nel solco della Sugarhill Gang e di Grandmaster Flash, ma io preferivo il rap newyorkese pieno di soffi, fiati, synth a sega elettrica. Percepivo l’innovazione, come se dietro ci fosse una filosofia sonora molto segreta. Avevo la sensazione che mi stessero nascondendo qualcosa ed era ciò che volevo: rubare il fuoco per portarlo agli altri».
Con la musica sono arrivati i graffiti e la breakdance.
«Mia madre lavorava come giornalista nel mondo dell’arte e grazie a lei, nel 1979, ebbi la fortuna di vedere la mostra di Lee Quinones alla galleria La Medusa in via Margutta a Roma. Provai un’emozione fortissima, avevo quasi paura di non riuscire a portare a casa ciò che avevo visto... In parallelo il mondo della cartoleria si stava evolvendo: i primi pennarelli indelebili, le bombolette spray più accessibili... Iniziai sui muri del mio quartiere, poi anche su commissione».
I vagoni della metropolitana invece non li ha mai sfiorati.
«Nessuno si sarebbe azzardato, se provavamo a entrare in una stazione della metropolitana ci sparavano addosso pensando fosse un tentativo di furto. Un writer romano si beccò una pallottola e finì in ospedale con un polmone perforato, da quella volta gli addetti alla sicurezza ricevettero l’ordine di non sparare più perché avrebbero potuto colpire un minorenne... Così la mitologia, la trasgressione sono stati sdoganati».
Come nasce lo pseudonimo di Ice One?
«A Ostia ballavo la breakdance con il mio gruppo, la Special breaking crew. Facemmo amicizia con dei fratelli di Boston in vacanza con i quali ci sfidavamo. Furono loro a darmi il nome perché ero di poche parole pensando fossi glaciale, poco loquace, in realtà non capivo lo slang americano».
Lei ha tenuto a battesimo Crash Kid, alias di Massimo Colonna, leggendario ballerino di breakdance morto nel 1997, a soli 26 anni, dopo avere vinto la competizione mondiale «Battle of the year»: come lo ricorda?
«Nella sua versione più ribelle, ironico e irriverente. Quando morì ero in tour con Frankie hi-nrg e decidemmo di mandare in onda su Mtv Sonic una sua performance nella quale, imitando le mosse di una scimmia, fece a pezzi l’avversario».
Agli esordi la vostra palestra era la Galleria Colonna in via del Corso, poi intitolata ad Alberto Sordi: come trascorrevate i pomeriggi?
«Era teatro di sfide selvagge, finché non cominciarono i finti arresti... I poliziotti ci caricavano sul cellulare facendoci credere che ci avrebbero portati in commissariato, ma dopo qualche giro ci rilasciavano intimandoci di non tornare più. Non facevamo niente di male, mentre ballavamo con lo stereo acceso pulivamo il pavimento sudicio della galleria...».
Qual è stata la genesi di «Quelli che benpensano»?
«Lavoravo con Julie P. (Giulia Puzzo, ndr) che all’epoca era mia moglie e si occupava di arrangiamenti. Con Frankie hi-nrg ci eravamo conosciuti a Rock in Umbria ed era nata un’amicizia. L’idea principale del beat è stata una folgorazione, che ho sviluppato utilizzando l’Akai Mpc 60 (uno strumento musicale elettronico, ndr). Pescavo tra i dischi alla ricerca di combinazioni che potessero funzionare e mi colpì la colonna sonora di un film francese del 1967, un pezzo strepitoso di autore ignoto. La tromba è del jazzista americano Blue Mitchell, che ho smontato e fatto girare in modo diverso; la ritmica un composit di cassa e rullante presi qua e là; per il basso campionai una nota e la suonai».
Lei è stato anche dj e produttore del gruppo rap Colle der fomento. Come vi siete conosciuti?
«Li ascoltai per la prima volta dal vivo a The Jam, al Palladium di Roma, nel 1992; si esibivano con quelli che poi sarebbero diventati i Cor Veleno (formazione rap capitolina, ndr) e non avevano ancora un nome. Erano spavaldi, acerbi ma potenti; con Luca De Gennaro (dj, critico musicale e conduttore radiofonico, ndr) suggerimmo loro di chiamarsi Facce da culo. Ho lavorato con il Colle der fomento ai primi due album, Odio pieno e Scienza doppia H; per cinque anni sono stati la mia famiglia, poi abbiamo preso strade diverse pur restando amici».
Nel 2016 è entrato nella hall of fame dell’Universal Hip Hop Museum di New York. Chi le ha conferito il riconoscimento?
«Ero stato invitato a suonare in un locale di Torino. A un certo punto si presenta Rocky Bucano, fondatore del museo nel Bronx assieme a Kurtis Blow, con la targa... Fu un’imboscata...».
L’Ice One con i piedi piantati nel presente e la mente proiettata nel futuro a cosa sta lavorando?
«Non seguo le mode, sto remixando pezzi commerciali per mostrare che hanno radici underground. Mi piacciono le reincarnazioni musicali, cercare la versione alternativa di un brano».