La Lettura, 21 maggio 2022
Intervista a Jonas Hassen Khemiri
«Sono cresciuto in un Paese dove l’appartenenza non era scontata, anche se eri nato e vivevi lì. Dove spesso uno sguardo esterno, non sempre netto e binario, ma incerto, variabile, aveva il potere di includerti o di escluderti. Credo che tutto questo abbia influenzato la mia produzione e abbia trovato via via espressione nei miei romanzi e nelle opere teatrali».
Jonas Hassen Khemiri, 43 anni, scrittore e sceneggiatore nato a Stoccolma da madre svedese e padre tunisino, è tornato nelle librerie italiane con Chiamo i miei fratelli (Einaudi). Un’opera breve che in Svezia è uscita nel 2012 e dalla quale l’autore stesso ha tratto un adattamento teatrale. La storia, di fiction, si ispira a una vicenda reale: quella di un tentato attacco terroristico l’11 dicembre 2010 nel centro di Stoccolma. Il protagonista di Khemiri è Amor, un giovane uomo che si capisce avere origini arabe. Dopo la notizia vorrebbe rintanarsi in casa ma sua cugina ha bisogno, deve comprarle il ricambio per il trapano... E così attraversa la città atterrita e intanto febbrilmente parla al telefono con gli amici, il fantasma di sua nonna, la ragazza di un call center che cela le sue origini dietro un nome svedese... Amor sa che rischia di diventare, per il suo solo aspetto, un sospettato e kafkianamente, in un crescendo emotivo, il dubbio di essere davvero responsabile s’insinua persino nella sua mente.
La trama nasce in un contesto specifico ma si fa universale grazie soprattutto alla molteplicità delle voci e dei punti di vista che riescono a restituire, in una lingua essenziale e potente, le diverse e non sempre coerenti reazioni al trauma. E la vicenda è quanto mai attuale, oggi che il pregiudizio e la contrapposizione tra «noi» e l’«altro» si ripropongono fortissimi: che sia a proposito della migrazione, della pandemia, della guerra.
Khemiri parla con «la Lettura» da una scrivania della New York Public Library, che gli ha offerto una Cullman Center Fellowship, borsa di studio riservata a studiosi e scrittori di spicco.
Come nacque il libro?
«Chiamo i miei fratelli è il titolo e risuona nel testo come il ritornello di una canzone. Vivevo a Berlino all’epoca ed ero tornato a Stoccolma proprio nel weekend dell’attentato. Il primo impulso fu chiamare le persone care, accertarmi che stessero bene, dare consigli. Di ogni suggerimento tuttavia vedevo il rovescio della medaglia. Lo fa anche Amor ma pure i suoi consigli sono contraddittori. Lo seguiamo per 24 ore e lo conosciamo attraverso le persone con le quali parla, in un continuo tentativo di connessione che però di fatto fallisce, lasciandolo isolato. Altro tema è il cambiamento, o il suo contrario: tanto le vite degli altri si sono evolute, quanto Amor è fermo, bloccato».
Uno dei consigli è rendersi invisibili. Lo ha seguito anche lei nella vita?
«Sono cresciuto in un Paese dove era chiaro che bastava poco per essere esclusi, un errore, una parola pronunciata male, dove l’appartenenza andava periodicamente rinegoziata. Nonostante fossi sempre io, vestito allo stesso modo, mi capitava più spesso di essere fermato dalla polizia se ero in giro con gli amici poveri, non con i più benestanti. Il sogno di mio padre, che non era nato in Svezia, fu sempre sentirsene parte. Voleva parlare un perfetto svedese, ma legava l’inclusione anche alla prosperità economica: “Se fossimo ricchi, saremmo accettati”. A Stoccolma ha guidato il metrò, è stato un barista, poi un insegnante. Non è mai diventato ricco, ma lottava e non considerava la passività un’opzione. S’ispira a lui ne La clausola del padre (2018; Einaudi, 2019) la figura del genitore più anziano».
In appendice all’edizione italiana di «Chiamo i miei fratelli» c’è la lettera che scrisse nel 2013 alla ministra svedese della Giustizia Beatrice Ask (pubblicata anche su «la Lettura» #73), nella quale le chiedeva: «Perché non ci scambiamo pelle ed esperienze?».
«Volevo mostrare come anche aggressioni a bassa intensità, se ripetute, abbino un effetto: ti chiedono la carta d’identità, te la chiedono ancora... Poi entri in un negozio e ti seguono perché non si fidano, attraversi la dogana e non fermano nessun bianco ma tuo padre...».
Ancora oggi in Svezia quella lettera resta uno dei testi più condivisi sui social ed è stata tradotta in oltre 30 Paesi.
«È accaduto non tanto perché tutti in Svezia si sentissero come un immigrato, quanto perché molti avevano la percezione di non essere del tutto inclusi, ma quasi. Anche all’estero gli altri Paesi fanno i conti con il vacillare dell’appartenenza, che non dipende solo dalle tue origini o dalla ricchezza: nel mondo globalizzato è più difficile capire cosa ci unisce».
Nella lettera racconta anche di quando lei stesso fu fermato perché corrispondeva all’identikit di un sospettato.
«All’epoca studiavo Economia all’Università di Stoccolma. Ero vicino alla stazione, mi portarono nella volante e alla fine mi dissero “Puoi andare”, senza chiedermi scusa. Fu significativo vedere come ti guardano quando sei in una macchina della polizia, è difficile sembrare innocente. Ci misi quindici anni a raccontarlo perché pensavo ci fossero violenze peggiori di cui parlare. Ma è un tipo di silenzio pericoloso, che può inibire eventuali richieste di riforma».
Com’è oggi la Svezia? Ci sono episodi di razzismo e discriminazione?
«Quando ero giovane il razzismo era più evidente nelle strade, a scuola c’erano gli skinhead rasati e mi è capitato di essere inseguito. Ora quei segnali visivi non ci sono più. Ma molte più persone votano per i Democratici svedesi (partito nazionalista di estrema destra, ndr)».
«Noi non sogniamo di tornare a un passato fasullo. Noi entriamo a testa alta in un futuro di confini dissolti, con la certezza che gli orologi non possono tornare indietro», dice il suo protagonista Amor. Che effetto le fa oggi, anche alla luce della guerra in Ucraina?
«In quelle righe Amor cerca di convincersi che il mondo va verso il meglio, ma poi lui stesso metterà in dubbio quello slancio. La guerra di oggi rappresenta un grande cambiamento, anche per il mio Paese. Ma non voglio entrare nell’attualità concreta, non voglio dire se sono favorevole o meno all’adesione alla Nato. Preferisco ripartire da Guerra e pace».
Perché?
«Lev Tolstoj ci mostra cosa significa essere umani, il dolore della guerra. E seppure ha le sue convinzioni personali, nel testo accoglie tutte le sfumature e ci costringe a trascorrere il tempo con personaggi che la pensano in maniera diversa. Credo sia importante in tempi come questi. Lo fece anche Ivan Turgenev in Padri e figli: non scelse chi aveva ragione. Ecco perché in questo momento non voglio esprimermi sull’attualità: aspiro anche io a rappresentare nei miei romanzi mondi diversi, eventualmente in conflitto, e dire come la penso sarebbe dare a priori una scheda informativa ai lettori».
Mostra una grande fiducia nella scrittura. Nella sua vita è stata un antidoto al rendersi invisibile?
«Mi ha dato la sicurezza che ci fosse sempre un universo alternativo. In questa specifica fase in cui sono a New York sono meno visibile che in Europa ed è come se stessi ricominciando: usare un’altra lingua mi ha portato nuove idee».
A casa sua ne parlavate quattro...
«Lo svedese e il francese erano le principali, e poi l’arabo e l’inglese».
Il Premio Nobel, il Booker, il Goncourt, il Camões... L’ultimo periodo è stato straordinario per gli scrittori africani o di discendenza africana. Lei come si percepisce?
«Non mi sono mai sentito al cento per cento a casa in nessun posto. Ora sto bene: uno svedese a Brooklyn. Qui vengo presentato spesso come europeo. Di certo lo sono, e lo avverto molto quando insegno e vedo la differenza tra il nostro modello e quello americano. Poi c’è la Tunisia. Tra le notizie più belle dell’ultimo periodo c’è che La clausola del padre è stato tradotto in arabo e che un mio amico lo ha trovato, in francese, in una libreria di Tunisi. Questa multipla appartenenza mi ha trasmesso un’estrema curiosità per le lingue e il linguaggio e l’attenzione al tema dell’inclusione/esclusione. Tutti i miei libri riflettono di fatto sull’identità, con personaggi che cercano la verità su di sé e aspirano a una vita sincera, che corrisponda a loro stessi».
A che cosa sta lavorando a New York?
«A un romanzo diverso dai precedenti, molto più lungo. Al centro, tre sorelle della zona dove sono cresciuto io a Stoccolma. Cercano di sconfiggere una maledizione e sono convinte di avere parenti americani, quindi finiscono a New York. A differenza di Amor, che è immobile, qui un focus è il tentativo di cambiare le proprie menti. In autunno sarà anche in scena a Stoccolma una mia commedia in cui i personaggi usano persino il fuoco per costringersi a una svolta. È un tema che sento molto. Ed è un ulteriore motivo per cui in questa fase non voglio esplicitare opinioni personali: amo leggere, e provare a scrivere, libri inaspettati, che possono cambiare le menti e le idee».