la Repubblica, 21 maggio 2022
Sri Lanka, la grande carestia
«Invito seriamente tutti a riconoscere la gravità della situazione», twittava giovedì sera il neoprimo ministro Wickremesinghe poche ore dopo l’annuncio ufficiale: per la prima volta nella sua storia – da quando ottenne nel 1948 l’indipendenza dalla Gran Bretagna – lo Sri Lanka è tecnicamente in default. Scaduti i 30 giorni di periodo di grazia, il governo non è riuscito a pagare la tranche da 78 milioni di dollari di interessi sul debito, parte di un debito estero ben più grande che sta soffocando il Paese: 51 miliardi. La “situazione grave” nella vecchia Ceylon è questa: mancano benzina, medicine, corrente, manca soprattutto da mangiare. «I prossimi due mesi saranno i più difficili della nostra vita», dice il premier. «Moriremo di fame» si sussurra per le strade di Colombo.
A migliaia si sono messi in fila ieri per riuscire a prendere un po’ di benzina. Da mesi nella capitale e nelle altre città si protesta violentemente contro il clan dei Rajapaksa: il fratello minore della famiglia, Gotabaya, presidente, e quello maggiore, Mahinda, primo ministro fino a una settimana fa, che comandano da 17 anni. Ieri la polizia ha usato gas lacrimogeni e cannoni ad acqua contro centinaia di studenti per le vie di Colombo.
Negli ultimi sei mesi i prezzi del riso e del grano sono raddoppiati. Quelli del diesel aumentati del 60%. Conseguenze della crisi mondiale causata dalla guerra in Ucraina che ha spinto alle stelle i prezzi dell’energia e dei cereali, unita qui al collasso di un’intera economia basata sul turismo e che con la pandemia è andata gambe all’aria. A cui si aggiungono i tagli e le politiche del governo populista dei due fratelli, come la decisione lo scorso anno di vietare l’import dei fertilizzanti chimici, mossa che ha ridotto drasticamente i raccolti dando un colpo devastante al settore agricolo. Sebbene il governo quel divieto lo abbia revocato, la situazione non è migliorata. Infine, anni di spesa pubblica alimentata dal debito estero che ha portato alla diminuzione delle riserve di valuta straniera nelle casse della nazione. Appena 25 milioni di dollari sono disponibili: lasciando Colombo senza soldi per garantire alla popolazione anche i più basilari beni di prima necessità.
Nove nuovi ministri sono stati nominati ieri, in dicasteri critici come Salute, Commercio e Turismo. Nessuno si è fatto avanti per quello più delicato: le Finanze. Ministero che rimarrà nelle mani del premier. Ad aprile l’inflazione ha già toccato il 29,8%: nei prossimi due mesi potrebbe andare addirittura al 40%.
I leader del G7 si sono detti pronti a «impegnarsi per trovare soluzioni a lungo termine». I colloqui su un programma di prestiti da parte del Fondo monetario internazionale dovrebbero concludersi tra 3 giorni. Un salvataggio dell’Fmi richiederà, però, scomode riforme economiche. Molti economisti sono convinti che lo Sri Lanka sia la prima tessera di un domino pronto a venir giù: Egitto, Tunisia, Pakistan, colpiti dall’aumento dei prezzi delle materie prime provocato dalla guerra.
Colombo ha negoziato con New Delhi linee di credito per l’import di petrolio e riso. Anche Pechino ha promesso aiuti. Proprio i prestiti cinesi allo Sri Lanka (5 miliardi di dollari) per porti, strade e infrastrutture arrivati dopo la guerra civile nel 2009, sono l’altro tasto dolente. La Cina detiene il 9,8% del debito del Paese, alla pari con il Giappone. Lo Sri Lanka è uno degli esempi di quella che molti etichettano come “diplomazia – o trappola – del debito”. Non avendo i soldi per ripagare i prestiti, nel 2017 il governo ha ceduto per 99 anni alla Merchant Port Holdings cinese per 1,12 miliardi di dollari il porto di Hambantota, snodo strategico per la Via della Seta di Xi.
Mahinda, dimessosi da premier, è l’ultimo membro del potente clan ad essersi fatto da parte: altri 4 membri della famiglia, tutti ministri, sono già usciti di scena. Solo suo fratello, il presidente Gotabaya, resiste ancora. “Gota, hora”, Gota ladro, si grida nelle strade delloSri Lanka in rovina.