la Repubblica, 21 maggio 2022
Tutti gli affari tra Vladimir e il Cavaliere
MILANO – Che Silvio Berlusconi abbia simpatia, non solo umana, per Vladimir Putin e il suo sistema di potere, sono fatti.
Tanti, e tali, che ai buoni di memoria sorprende di più il profilo basso tenuto così a lungo da padre del centrodestra italiano sull’invasione in Ucraina. La sua liaison con Mosca è stata l’architrave geopolitica dei quattro governi Berlusconi tra 2001 e 2011, cosparsi di numerose visite dell’imprenditore-politico. Con ambasciatore o senza, con il consigliere Valentino Valentini (che, si mitizzava, «sapeva il russo») o no. Sempre tra il Cremlino e la dacia, mischiando pubblico e privato da par suo. Sempre provando a coniugare affari di Stato e affarucci, suoi o dei tanti accoliti. Dalle passate cronache emergono tentativi, tracce, voci. Conta più il lascito politico di quel decennio con “l’amico Vlad”: la dipendenza estrema dell’Italia dal gas russo, la connessa assenza di un piano di sicurezza energetica, malgrado anni di pressioni, specie dagli Usa, a diversificare fonti e fornitori.
Fin dagli anni ‘90 l’uomo del Biscione, nel guardare a Est, vedeva, più che i “comunisti”, mercati promettenti: dall’immobiliare all’editoria, dal calcio agli idrocarburi. Settore, l’ultimo, a lui ignoto, in cui mandò in avanscoperta fidi emissari. Prima Marcello Dell’Utri, dirigente e consigliere della prima ora, e compaesano del potente Pietro Fallico, il reuccio dei banchieri italiani a Mosca. Poi, già al governo, Bruno Mentasti, amico caro della sua famiglia, già socio in Telepiù (dove gli fece il prestanome) che aveva ceduto l’acqua San Pellegrino e cercava nuove imprese. In Russia, come in tutti i Paesi produttori – molti a basso quoziente democratico – puoi comprare gas e petrolio in due modi. Direttamente, con l’azienda statale che vendeall’azienda statale che importa. O indirettamente, con mediazioni a piacere che fanno salire i prezzi e arricchiscono gli intermediari. Quando il 30 ottobre 2003 Vittorio Mincato – ad dell’Eni che non lasciava ai gruppi rivali neanche una goccia della merce russa – dopo una cena d’affari milanese ebbe dall’allora vicepresidente di Gazprom Komarov un biglietto con su scritto “Mentasti”, trasecolò. Secondo ricostruzioni dirette, il russo si giustificò con «pressioni molto forti dall’alto, dove tutto è già stato deciso». Il già socio di Berlusconi doveva intercettare 3 miliardi di metri cubi di gas di spettanza Eni e venderli in Italia. Era già costituita anche la holding Centrex, a Vienna con insieme a Mentasti vari soci schermati in società cipriote. Alcuni con prestanomi russi, altri nostrani, ma i nomi non uscirono perché l’affare, che garantiva a una scatola nata con 120 mila euro di capitale ritorni ventennali da una cinquantina di milioni l’anno, fu stoppato. Non subito. Il nuovo ad Eni Paolo Scaroni (che oggi presiede il Milan), scelto nel 2005 dal Berlusconi III, s’era prestato a firmare l’intesa nonostante diverse critiche nell’ambiente e sulla stampa. «Dalla sera al mattino un ad dell’Eni, che aveva espresso resistenza a firmare certi accordi russi, fu rimosso e sostituito da un altro, che invece firmò – racconta Salvatore Carollo, una vita da dirigente all’Eni, ora analista –. Da quel giorno, sarà probabilmente una pura coincidenza, l’import di gas russo è aumentato e la produzione italiana è calata vistosamente».
Del resto, proprio quell’accordo era tra i motivi per cui Scaroni era stato preferito a Mincato. Ma dopo i rilievi del cda Eni, e dell’antitrust, la fornitura fu riformulata (fine 2006), togliendo la senseria di Mentasti.
Scaroni è stato il manager che più ha piegato l’ex monopolista italiano alla politica filorussa di quegli anni. Ci sono varie testimonianze, anche se la più smaccata è forse quella che non si vede: il gasdotto South Stream. Putin accarezzava di costruirlo con l’aiuto degli italiani per aggirare gli infidi ucraini sulle rotte commerciali del Sud Europa. Un tubo da far passare sotto il Mar Nero, al costo di 15,5 miliardi, il doppio del rivale Nabucco azero, più gradito agli Usa. Ma l’Italia e l’Eni, fin dal 2007, avevano scelto: solo nel 2014, a lavori già iniziati, il progetto è naufragato, più per le pressioni Usa sulla Bulgaria dopo l’annessione russa della Crimea e le prime sanzioni a Mosca. Oggi quel tubo sarebbe una catena al collo in più per l’Italia. Come emerso dai dispacci Wikileaks, parte della diplomazia Usa, ma anche della stampa italiana e degli operatori di settore, arrivò a pensare che l’assiduità di Berlusconi con Mosca celasse tornaconti personali. Si è vociferato di un piccolo giacimento in Kazakistan, intestato alCavaliere. Lui ha smentito.