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 2022  maggio 21 Sabato calendario

La lezione del Vietnam

«Dopo le elezioni del 1968, Nixon mi invitò presso il suo quartier generale al Pierre Hotel di New York. Mi parlò della situazione internazionale per circa 2 ore ? sapevo che voleva qualcosa da me, anche se non capivo cosa. Una settimana dopo, John Mitchell, uno degli uomini più vicini a Nixon in quel periodo, mi chiamò per chiedermi se accettavo l’incarico. Io gli chiesi: quale?».
Un dettaglio in questo ricordo di Henry Kissinger è significativo. Colui che diverrà poi il più influente segretario di stati Usa del secolo scorso, viene convocato da Nixon, lui stesso uomo che avrà una per altri versi indimenticabile presidenza, all’Hotel Pierre di New York, invece che alla Casa Bianca. Fin da allora i due, come racconterà ancora Kissinger, avevano un lato in comune molto forte: una forte inclinazione alla segretezza. Kissinger lo racconta allo storico Niall Ferguson, che lo intervista nel 2011, per un documentario di National Geographic Channel, i cui estratti saranno poi riportato dalla rivista Limes.
In questo complicato momento in cui l’equilibrio fra eserciti in Europa, fra Ucraina e Russia, sembra in stallo, e molti Paesi fra cui l’Italia, presentano proposte di trattative, è interessante rileggere questa intervista che ricostruisce la storia di un accordo di pace che è forse il più rilevante nella formazione dell’equilibrio della guerra fredda.
Nel gennaio del 1969 alla Casa Bianca entra Richard Nixon, nuovo Presidente degli Stati Uniti. In Vietnam ci sono 541 mila soldati americani. Nixon vede un pericolo comunista allargarsi nel mondo: «In quell’anno, la protesta (interna nda) era diventata agguerrita e violenta. A livello internazionale, non avevamo rapporti con la Cina. I rapporti con l’Unione Sovietica erano congelati e i russi stavano costruendo una base sottomarina a Cuba. Quindi il presidente non era paranoico quando parlava di un problema di matrice comunista nel mondo», Kissinger giustifica le paure.
Negoziati c’erano, ma si trascinavano in un sostanziale senso di inutilità, avendo come base di partenza posizioni irriconciliabili. I delegati Viet Cong, ad esempio, non riconoscevano la legittimità del governo sud vietnamita; e chiedevano il ritiro delle truppe statunitensi. Gli Usa chiedevano il riconoscimento della sovranità del Sud da parte del Nord. La guerra dura in effetti dal 1955. Eppure nel 1973, quattro anni dopo l’inizio della Presidenza Nixon, trova un accordo, un trattato di pace che pareva impossibile.
Come riesce questo trattato? Nella intervista a Kissinger, c’è la risposta. La ricetta, è, per i gusti “politici” di oggi, cioè per le democrazie con aspirazione alla “trasparenza”, particolarmente indigesta. I metodi e i mezzi impiegati risultano spesso brutali.
I due negoziatori sono, intanto, di quelli che nascono una volta ogni secolo. Le Duc Tho era un rivoluzionario comunista vietnamita, «ostinato e impeccabile», ricorda il Segretario di Stato, «il suo compito non era negoziare. Il suo compito era spezzare la nostra volontà, sfruttando le nostre divisioni interne. In America venivamo costantemente accusati di non volere un accordo». Vi ricorda qualcosa di oggi, questa affermazione?
Kissinger ha però una nuova diplomatica dalla sua parte: i negoziati segreti. Secondo la passione e convinzione del Presidente Usa in carica. «Il Vietnam del Nord pretendeva il ritiro incondizionato delle truppe americane. In pratica si parlava di una resa, cosa che non era, ovviamente accettabile. Era l’unica possibilità che avevamo, ma era inconcepibile. Nell’agosto del ’69 iniziammo una serie di incontri segreti a Parigi con i nord vietnamiti. Ero giunto alla conclusione che la guerra non potesse essere vinta sul campo, per questo volevo negoziare».
Fergusson a sua volta pone una domanda vicina alla sensibilità odierna: «Guerra Fredda a parte, la guerra in Vietnam non stava andando bene. Perché non interrompere la guerra e ritirare le truppe?».
Kissinger risponde entrando nel cuore della logica di ogni negoziato – che spesso non è quella dell’accordo: «Furono impiegati (in Vietnam) 500 mila soldati senza una definizione di vittoria. L’obiettivo era infliggere più danni possibili ai vietnamiti del Nord in modo da spingerli a negoziare. Purtroppo, la loro capacità di sopportazione fu molto più alta del previsto».
Il Segretario di Stato parla indirettamente dei bombardamenti “segreti”, alcuni fatti in Cambogia, ripetutamente usati dagli Americani per “ammorbidire” la trattativa. Fergusson chiede conto: «Cosa mi dice dell’accusa che centinaia di migliaia di civili indifesi rimasero uccisi?». Kissinger svicola: «Questa è una sciocchezza».
I colloqui avanzano dunque attraverso atti di guerra:
uso di bombardamenti indiscriminati (come poi il giornalismo americano denunciò con i famosi Pentagon Papers pubblicati nel 1971), e l’uso di attacchi terroristi da parte dei Vietcong, nonché una abile, come diremmo oggi, propaganda politica internazionale. E avanzano grazie a colloqui segreti che sono fuori da quello che chiameremmo “trasparenza democratica”.
Ma la fortuna del tutto è la individuazione di una exit strategy vera, una uscita che è più grande del conflitto stesso, e lo sposta a un diverso livello: l’accordo fra Usa e Cina. Kissinger ricorda. «Il presidente Nixon e io avevamo capito che l’Unione Sovietica e la Cina erano nemici, e non alleati. Credevamo inoltre che la distribuzione del mondo fosse innaturale. La Cina era fuori dal sistema internazionale, quindi la strategia era includerla, in modo che l’Unione Sovietica avrebbe avuto altro a cui pensare. Un altro aspetto importante era che, favorendo le relazioni con la Cina, avrebbero potuto aiutarci a convincere i vietnamiti a farci delle concessioni. Nixon ebbe il coraggio di aprirsi alla Cina appoggiato da un solo consigliere, senza consultare altre nazioni. Riteneva che, se la cosa fosse diventata di pubblico dominio prima che l’annunciasse, non sarebbe mai andata in porto». Nel 1972 Nixon va in Cina. Nel 1973 viene firmato l’accordo con il Vietnam del Nord. La guerra finisce comunque come sempre le guerre: con la sconfitta di uno dei due contendenti. Nel 1975 i Vietcong prendono Saigon, e gli Americani la abbandonano con una spettacolare fuga.
Insegnamenti per l’oggi
Ci dice qualcosa tutto questo per l’oggi? Le due storie non sono comparabili certo. Ma contengono una identica lezione sulla natura intima del percorso verso un accordo: avviare una trattativa non è solo un elenco di proposte. Non è solo dire si potrebbe fare così e così.
C’è bisogno di veri mediatoti, del raggiungimento di un bilanciamento militare, e di una sorta di equilibrio fra stanchezza e calo di motivazione. Infine c’è bisogno di accordi che ognuna delle due parti possano vivere come una non completa sconfitta. Sono condizioni che nascono da rese dei conti, odi che vengono esplorati fino in fondo e paure vissute fino all’esaurimento.
Nessuna delle tante proposte oggi avanzate, inclusa quella italiana, sembrano recepire la gravitas, il dolore e il peso della strada per la pace. —