Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 21 Sabato calendario

Quando i Savoia rifiutarono la propaganda

La resa, ordinariamente definita armistizio, fra l’Italia e gli Alleati fu sottoscritta il 3 settembre 1943, resa nota l’8 (data poi da taluni designata come segno della morte della patria) e poi di nuovo firmata il 29 settembre nella formula ampia e così spietata per condizioni da essere tenuta celata (fu il cosiddetto “armistizio lungo”). La guerra con la Germania venne dichiarata poco dopo, il 13 ottobre. Vittorio Emanuele, rifugiatosi nel lembo di territorio nazionale non occupato da nemici antichi o nuovi, rinunciò ai propri poteri il 5 giugno ’44 in favore del figlio Umberto, nominato luogotenente del Regno. Roma era stata da poche ore raggiunta dalle forze angloamericane.

Quel giorno il sovrano avrebbe potuto sottoscrivere l’abdicazione, sempre a favore del figlio. Così non fece, sicché nei mesi seguenti si susseguirono le più varie ipotesi perché assumesse il trono un successore, direttamente ovvero tramite una reggenza. Le norme dello Statuto, facilmente consultabili pur in assenza di strumenti come internet, erano ignorate. Personaggi fra i più noti nel mondo politico avanzavano ipotesi scriteriate e illegittime, quale una reggenza affidata a un estraneo alla dinastia. Finì che si susseguirono più governi e che la soluzione istituzionale fu rinviata a un referendum, che si svolse il 2 giugno ’46, in coincidenza con le elezioni della Costituente. Il re abdicò il 9 maggio ’46, in favore di Umberto, partendo per l’Egitto con la moglie Elena. Le elezioni segnarono, poche settimane dopo, la vittoria della repubblica (12.718.614 voti) sulla monarchia (10.718.502), con oltre un milione e mezzo di schede bianche e nulle, su un totale di quasi 25 milioni di votanti.

Una domanda sorge spontanea: perché Vittorio Emanuele non abdicò subito dopo la presa di Roma? Perché, in subordine, non rinunciò al trono con la conclusione della guerra nella primavera ’45? Perché, insomma, si ritirò a pochi giorni dal voto?
La riflessione viene dalla biografia Vittorio Emanuele III, stesa da Aldo A. Mola per la collana «Il Giornale – I protagonisti». L’autore vuol essere neutro nei confronti del sovrano, definito «Il Re discusso». Rimane estraneo a polemiche ricorrenti nei confronti di certi atteggiamenti del sovrano, imputato di tutto: l’avvento del fascismo, le leggi razziali, le norme “fascistissime”. Il re aveva forte il senso della dinastia: non era per lui concepibile che il popolo si esprimesse contro chi era re anche «per grazia di Dio», pur essendo lui scettico in materia religiosa. Non concepiva la possibilità che gli elettori premessero per destituirlo. La storia gli insegnava che eventi forzati potevano condurre a subire un’abdicazione, come capitò al suo avo Carlo Alberto, ma egli non si sentiva di cedere spontaneamente un trono vantato come millenario. Un conto era lasciare il potere al figlio luogotenente, altro sarebbe stato una rinuncia, evento che voleva a ogni costo evitare e al quale si rassegnò solo in extremis.

I Savoia regnano uno per volta: era un credo, non erano semplici parole che Vittorio Emanuele ripeteva in famiglia. Re era e re restava. Se cedette, fu perché comprese che la continuità della dinastia gli richiedeva quel sacrificio. Era troppo tardi, come dimostrò il voto referendario, pur lasciando da parte le non deboli e non scarse riserve sui risultati, piovute già nell’immediato. Il numero di quanti giudicavano la dinastia responsabile della guerra, cioè della sconfitta, tendeva a decrescere. Soprattutto, diminuivano quanti ne imputavano chi era ancora assiso sul trono. Umberto non pativa una simile eguale fama negativa, almeno come persona. Restava, forse maggioritaria (chissà), l’ostilità verso i Savoia, colpevoli non tanto del fascismo quanto della guerra. Difatti la popolarità del regime subì tracolli dopo l’infausta campagna di Grecia, la tragica ritirata in Russia, gli sbarchi nemici sulla penisola, fino alla bancarotta del luglio ’43, quando il fascismo si afflosciò in pochi giorni (e lo stesso Mussolini, fatto da non dimenticare mai, scrisse al successore Pietro Badoglio per garantire la propria ortodossia).

Il suicidio della dinastia, e di Umberto II che in quel frangente la incarnava, era poi marcato dal rifiuto della propaganda. Non che essa mancasse, ma fu condotta in forma limitata, insufficiente, del tutto fuori di qualsiasi fondamento scientifico. Addirittura nei circoli di Casa reale pullulavano gli ostili all’ipotesi medesima che un sovrano svolgesse propaganda. Dunque, nemmeno le immagini di Umberto con la moglie (il cui contributo alla monarchia fu alquanto scarso, per usare un eufemismo, dal matrimonio alla morte) si sarebbero dovute divulgare.
Eppure la tradizione italiana aveva un nome che incarnava, prima intellettualmente, poi politicamente, la propaganda: Gabriele d’Annunzio. Nessuno contribuì più di lui a divulgare l’interventismo. Nessuno creò più eventi di propaganda, rivoluzionaria per i tempi, culminati nel volo su Vienna. Nessuno ideò un motto incarnante un’intera politica, come la “Vittoria mutilata”. Nessuno seppe gettare, con l’impresa fiumana, i fondamenti della marcia su Roma, che mancò per la capacità politica di Mussolini. Eppure la monarchia seppe riconoscerne i meriti, divenuti infine di sovrano rinascimentale, conferendogli il titolo di principe (con il predicato di Montenevoso) concesso, dall’Unità in poi, a pochissimi giudicati meritevoli. Perfino l’italiano più conosciuto nel mondo, Guglielmo Marconi, fu insignito del più modesto titolo marchionale. Mancò, dunque, alla dinastia prima, a Umberto poi, la capacità propagandistica.