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 2022  maggio 20 Venerdì calendario

Un viaggio a New York

Ricordo la prima volta che lasciai l’Europa. O meglio, come cellula naturalmente ero già stata in molti altri posti – mia madre, che è cresciuta in Sudafrica e una volta rischiò di morire per aver calpestato un pitone (in diverse occasioni l’ho vista raffigurare quel passo potenzialmente mortale), mi portò con sé ovunque allo stadio cellulare, dal momento che suo padre era un missionario, responsabile delle missioni all’estero, e così – già prima di venire al mondo – ho vissuto in un corpo che vedeva sorgere il sole a Johannesburg, Maputo, nel New Jersey, a Stoccolma e Lisbona.
Crescendo diventai una bambina socievole ed estroversa, e quando papà se ne rese conto, amava ripetere: «Da grande farai l’addetta culturale».
Ma non riuscii a esaudire il suo desiderio, perché avevo imparato che viaggiare da un continente all’altro portava in sé la catastrofe.
Muore qualcuno, ad esempio una mamma, e il corpo deve essere rimpatriato sotto forma di ceneri.
Avevo ventitré anni quando per la prima volta lasciai l’Europa. Avevo voluto fare l’arrogante, mi ero pagata il viaggio da sola, la mia famiglia andava a trovare mia sorella maggiore, il cui marito lavorava alla Brown University, negli Stati Uniti. Non molto lontano da New York, pensai. Era lì che volevo andare.
Per avere un compagno al mio fianco, avevo ingaggiato mio fratello minore. Da una vita era costretto a fare da spalla. Non avevamo mai neanche lontanamente rischiato di calpestare un pitone o di fare il bagno vicino agli squali sulla spiaggia di Durban; non avevamo mai viaggiato, non conoscevamo le lingue; avevamo subito entrambi le conseguenze del modo in cui era cresciuta la mamma: Se si viaggia a lungo, se ci si trasferisce dall’altra parte del mondo lasciando che la famiglia si allontani dalle proprie radici, si rischia la vita e si manda in pezzi la storia; che non tornerà più a essere davvero comprensibile e ad avere senso.
Nostra madre voleva che crescessimo nel più sicuro degli ambienti. La Svezia rappresentava tutti i nostri riferimenti. La lingua svedese. Lo Stato svedese. La scuola svedese. La casa dei vicini, dove correvamo a vedere la televisione commerciale. Le vacanze su un’isoletta svedese, ogni estate. A nostra volta cercavamo di fare tutto quello che potevamo per rendere nostra madre il più svedese possibile. I suoi gesti erano diversi, conosceva altre cose, aveva un modo di vedere il mondo che, ci rendemmo conto presto, era molto non-svedese. La mamma parlava con gli sconosciuti. La mamma si intrometteva negli affari degli altri. Lo svedese della mamma era antiquato, uno svedese che credo avesse appreso dalla Bibbia, crescendo in una missione in Sudafrica dove l’unico legame con la propria terra era suo padre, nato negli anni Venti del Novecento, che parlava una lingua ecclesiastica immune dalle evoluzioni moderne. La mamma caricava tutto di enfasi e pathos e di un inscalfibile coraggio civile che la spingeva a interessarsi di cose che noi avremmo preferito lasciasse perdere, come si fa in Svezia.
Intorno a lei c’era uno spazio vuoto, un enorme interrogativo, che non riuscivamo a comprendere.
Che aspetto aveva la Terra nel luogo dov’era nata? Il cielo? I suoi compagni di scuola? Chi era sua madre?
Ricordo la prima volta che lasciai l’Europa.
Non avevo messo in conto quanto fossi ingenua, non avevo riflettuto sul mio candore, sulla mia paura costante di partire, viaggiare, allontanarmi dalla Svezia. Recitavo la parte di quella felice, inconsapevole di essere una persona nella cui testa incombeva sempre la catastrofe.
Da Providence prendemmo un bus per New York. Una volta arrivati, mi fu impossibile orientarmi tenendo salda la rotta. Avremmo dovuto comprare una cartina, ma ero superiore a queste cose mondane. Ero a New York, dovevo soltanto fendere a testa alta la massa di gente che affollava l’enorme stazione degli autobus e imboccare la strada che mi sembrava la migliore.
«Dove stiamo andando?» chiese mio fratello.
«Sta’ zitto e cammina» risposi.
Eravamo cresciuti appena fuori una cittadina svedese, in un paese che contava duemila abitanti e una pizzeria. Pensai: questa non è l’Europa. C’era qualcosa nella faccia delle persone. A Stoccolma avevo imparato a non guardare la gente in metropolitana; qui ero sopraffatta dall’aspetto degli altri, benché non mi vedessero. Mi spaventava il loro modo di essere umani, insieme, in uno spazio ristretto, che fosse possibile esprimere la propria essenza pur trovandosi così esposti. Questo comportava che nemmeno io potevo nascondermi; io esistevo. Nella metro una ragazza gridò: «I’m gonna kill her! I’m gonna fucking kill her!» e nella mia logica paranoica naturalmente pensai che stesse parlando di me, che volesse uccidere proprio me. Indossavo un montgomery rosso, avrei dovuto mettermi qualcosa di meno inquietante, qualcosa che non mi facesse sembrare Cappuccetto Rosso.
A quel punto ero assolutamente convinta che avrei dovuto ritenermi fortunata se io e mio fratello fossimo riusciti a tornare a casa sani e salvi da New York.
La mia prima volta lontana dall’Europa mi ritrovai a piangere in un bagno di Starbucks. Non ero più capace di rilassare il corpo, quindi non riuscii a fare i miei bisogni, anche se impellenti. Perché non eravamo rimasti a casa? Questa città aveva milioni di indirizzi, milioni di case, codici, strade e famiglie, ma nessuno che conoscesse me e mio fratello. Ero un’estranea, e nella mia mente bloccata non riuscivo a capire che anche solo una persona poteva essermi amica.
Arrivammo all’ostello vicino a Central Park, lo esaminai da fuori. «Mi sembra proprio malandato» commentai riprendendo a camminare.
«E adesso dove vai?» chiese mio fratello, sempre più preoccupato.
«Telefona in Svezia. Telefona a chi vuoi e di’ che torniamo a Providence e che abbiamo bisogno che qualcuno venga a prenderci!»
Era l’anno prima degli smartphone, e piansi così tanto che tremavo tutta. Dall’autobus che ci riportava indietro ammirammo la Statua della Libertà, i grattacieli, passammo davanti alla Bleeker Street cantata dai miei idoli, a ristoranti dove di sicuro avremmo potuto mangiare il cibo più buono del mondo. Guardammo il fiume Hudson dal finestrino; passammo davanti all’Amazon, l’albergo fittizio dalla cui terrazza la Esther Greenwood di Sylvia Plath nella Campana di vetro si affaccia per lasciar cadere i suoi vestiti che così diventano una parte del grande corpo della notte di New York.
Piansi per tre ore, poi ci ritrovammo al sicuro da mamma e papà.
Maledissi me stessa, maledissi la mia banalità, la mia incapacità di sapermela cavare; perché non ero riuscita – come avrebbe fatto chiunque altro – a far mia una metropoli americana usando un po’ di eleganza? Perché dovevo essere così meschina e timida?
Quando in seguito tornai a New York, fui colta da un identico attacco di panico, poiché le storie hanno la tendenza a ripetersi finché non si cicatrizzano e perdono forza. Adesso ero madre e sognai che a casa, in Svezia, mia figlia di due anni usciva nella notte e nessuno riusciva più a trovarla. Durante tutto il viaggio di ritorno sentii l’Atlantico pesante e possente sotto di me, mi trascinava giù, voleva avermi. Ripresi fiato solo una volta atterrati all’aeroporto di Arlanda.
È qualcosa che ha a che fare con la luce; si posa sugli abeti per poi adagiarsi pesantemente e generosamente sul resto del paesaggio. Una luce in cui nascondersi. È l’Europa per me. Un luogo con cui non riuscirei mai a troncare i rapporti. Una casa, non molto lontano dalla quale ci sono persone che mi chiamano “amica”. Dopo aver pianto davanti alle immagini che arrivavano da Sarajevo negli anni Novanta, dall’alto della mia presunzione europea credevo che la catastrofe non sarebbe mai arrivata qui. Ma adesso ho cambiato idea, e mi rendo conto che io, che nutro pensieri catastrofici da quando sono nata, sono ben preparata, e in realtà mi sto preparando da una vita.—