La Stampa, 20 maggio 2022
Il mondiale delle donne arbitro
Il debutto delle donne arbitro ai Mondiali degli uomini nella prima volta in cui il torneo va in Medio Oriente. Sembra un tiro spiazzante, uno di quelli a traiettoria lunga, con la palla che gira e sbuca da chissà dove, invece è un rigore conquistato a furia di azioni scorrette. Ora va solo tirato dritto in porta.
In Qatar ci saranno tre arbitre e tre assistenti, tutte abituate a stare dove non era mai passata nessuna.
Stéphanie Frappart è stata l’unica ad aver diretto la Supercoppa europea al maschile, Liverpool-Chelsea, nel 2019 e dopo ancora a oltrepassare una barriera con una qualificazione: sempre maschi, ma stavolta in nazionale. Francese, rispettato nome della Ligue 1, nota per completare gli esercizi della valutazioni fisica in tempi e con reazioni da più brava della classe, mista, e per detestare il confronto statistico. Sa come tenere a bada una partita e pure la frenesia da entusiasmi facili. Salima Mukansanga, 33 anni, era nella lista di fischietti scelti per l’ultima Coppa d’Africa. Viene dal Ruanda, si è messa a piangere quando ha scoperto di essere stata convocata e non se ne vergogna affatto: «Da dove vengo devi sognare anche oltre il tuo sogno». Se vuoi prenderti l’orizzonte devi guardare molto lontano e lei, che aveva 6 anni, ai tempi del genocidio che ha segnato il suo Paese ora lo rappresenta. Ne porta in giro il sorriso convinto che le esplode quando fissa il nastro adesivo per sistemare il microfono sulla guancia. Lo strumento del mestiere, l’abito di scena che la fa entrare nella parte ed essere molto fiera. Yoshimi Yamashita ha fatto gli stessi passi da ricordare nelle competizioni asiatiche: è giapponese, è cresciuta in una società tanto all’avanguardia quanto tradizionale e sa di avere più giudizi addosso di quanto non capiti alla collega francese. Mai quanti la messicana Karen Díaz Medina, guardalinee nella patria delle curve machiste. Non ci sono limiti territoriali, le sei arbitre del 2022, su una lista di 105 persone, arrivano dal Brasile, dove il calcio è antidoto al terremoto sociale, come Neuza Back o dagli Usa, cresciuti con il calcio femminile, come Kathryn Nesbitt. Scelte da Collina, capo degli arbitri in Fifa, agli ultimi Mondiali delle donne, quelli del 2019, lui ci disse «in questo settore a parità di bravura corrisponde già la parità di genere». Anche allora elogiava Frappart, messa alla prova da un altro italiano, Roberto Rosetti, presidente della commissione arbitrale Uefa, che l’ha designata per la famosa Liverpool-Chelsea, lo strappo. In questo campo gli italiani, non tutti però quelli che comandano, si sono liberati dal condizionamento culturale. E non parliamo esattamente dell’ambiente più trasgressivo che ci sia, non è l’Eurovision, quindi non si tratta di inerzia o tempi maturi, ma di volontà, desiderio di cambiamento.
Queste signore hanno dato più spallate di quante non ne abbiano fischiate e chiamarle pioniere è offensivo. Per loro che stanno ben oltre la fase esordiente e per chi le ha precedute. Decenni fa. Sì, il mestiere dell’arbitra non è vocazione recente, come sempre è una rincorsa alla visibilità. Nessuno ricorda, nemmeno le federazioni internazionali, Edith Klinger, austriaca, in campo dal 1935 al 1938. Ci sono testimonianze che bastano per un romanzo e comunque lei resta un fantasma. Sbiadita nella memoria, ma almeno presente nella genealogia è la turca Drah?an Arda, incoronata come prima arbitra ufficiale e attiva alla fine degli Anni Sessanta. Betty Ellis ha battezzato il calcio professionistico negli Stati Uniti negli Ottanta e poi su fino a ieri, a Bibiana Steinhaus che nel 2017 diventa la prima a gestire una gara maschile in uno dei più importanti campionati d’Europa, la Bundesliga. Fino al Qatar che non è un tiro a giro uscito dalla storia, è l’ultimo passaggio, il tocco che devia il pregiudizio. —