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 2022  maggio 19 Giovedì calendario

Quanto vale la pace

Nel suo uso assiologico la coppia guerra-pace congiunge due termini carichi di significati emotivi, in modo tale che la connotazione positiva dell’uno rinvia alla connotazione negativa dell’altro. Vi sono coppie di termini antitetici, come piacere-dolore, ordine-disordine, in cui uno dei due termini ha sempre un significato emotivo positivo, l’altro sempre un significato emotivo negativo. Chi sostenesse che il dolore è bene e il piacere è male, o che il disordine è più desiderabile dell’ordine sarebbe considerato per lo meno un eccentrico, un paradossale, per non dire uno stravagante che non merita molta attenzione. Come stanno le cose per quello che riguarda la coppia tra la pace e la guerra?
A prima vista si direbbe che stanno nello stesso modo, ossia che il primo termine rappresenta sempre il momento positivo, il secondo sempre il momento negativo. In realtà non è così. Nella storia del pensiero filosofico, accanto agli autori che vengono chiamati irenisti o fautori di pace ve ne sono altri che possiamo chiamare polemisti in quanto fautori di guerra (non cambia nulla se non l’etimologia, se li chiamiamo rispettivamente pacifisti e bellicisti). Il giudizio politico, ossia il giudizio sulle azioni che rientrano nella sfera della politica, è generalmente fondato sul principio secondo cui il fine giustifica i mezzi.
Ciò significa che azioni politiche come la guerra e la pace vengono giudicate di solito non come valori finali o intrinseci, ma come valori strumentali o estrinseci.
È in base a tale giudizio che non sempre la guerra viene condannata, non sempre la pace viene esaltata: condanna o esaltazione dipendono dal giudizio di valore positivo o negativo del fine, cui la guerra e la pace servono secondo le circostanze. Riflettendo sull’immensa letteratura pro o contro la guerra, si possono distinguere tre situazioni tipiche in cui un fine al quale si attribuisce un valore positivo consente di dare un giudizio positivo della guerra come mezzo, e per il rapporto di antitesi fra guerra e pace un giudizio negativo, nello stesso tempo, sulla pace. Indico queste situazioni sotto forma di rapporto fra due termini, in cui la guerra figura come mezzo e l’altro termine del rapporto è il fine: a) guerra e diritto; b) guerra e sicurezza; c) guerra e progresso.
Il rapporto fra guerra e diritto è molto complesso. Vi è almeno un’accezione di diritto per cui la guerra appare come l’antitesi del diritto. Si tratta dell’accezione per cui il diritto, come insieme di regole poste da un’autorità dotata degli strumenti idonei a farle valere anche contro i recalcitranti, ha per scopo principale (se pure non esclusivo) la soluzione dei conflitti che sorgono all’interno di un gruppo sociale e di quelli che sorgono nei rapporti fra diversi gruppi sociali e pertanto di stabilire e mantenere la pace interna e quella esterna. Certo la pace è il fine minimo del diritto, ma appunto perché minimo può essere considerato (vedi la teoria pura del diritto di Kelsen) come il fine comune di ogni ordinamento giuridico, non raggiungendo il quale un insieme di regole di condotta non potrebbe essere chiamato appropriatamente un ordinamento giuridico. Nell’ambito di un ordinamento giuridico possono essere perseguiti altri fini, pace con libertà, pace con giustizia, pace con benessere, ma la pace è la condizione necessaria per il raggiungimento di tutti gli altri fini, e dunque la ragione stessa dell’esistenza del diritto.
Data la definizione di guerra come violenza organizzata di gruppo che si prolunga per un certo periodo di tempo, che la guerra sia l’antitesi del diritto ne è una conseguenza: il diritto infatti può essere definito come l’ordinamento pacifico di un gruppo e dei rapporti di questo gruppo con tutti gli altri gruppi. Proprio per il rapporto di opposizione fra guerra e pace, qui ripetutamente messo in rilievo, là dove il concetto di diritto è strettamente congiunto con quello di pace, è nello stesso tempo disgiunto da quello di guerra. Vi sono peraltro due situazioni in cui guerra e diritto non si presentano come termini antitetici. Lo scopo principale del diritto, si è detto, è di stabilire la pace, ma per stabilire la pace occorre in certe circostanze usare la forza per ridurre a ragione coloro che non rispettano le regole: nei rapporti internazionali questa forza è la guerra. Come tale, cioè come strumento per il ristabilimento del diritto violato, la guerra assume un valore positivo: assume lo stesso valore positivo della sanzione nel diritto interno, vale a dire dell’atto con cui il titolare del potere sovrano, in quanto detentore del monopolio della forza legittima, ripara un torto o punisce un colpevole, ristabilendo l’impero del diritto. La definizione della guerra, in determinate circostanze, come sanzione è stata uno degli elementi costanti della teoria della guerra giusta, secondo cui la guerra può essere sottoposta a due giudizi di valore opposti: negativo, se essa viene condotta in spregio del diritto delle genti, positivo, se essa viene condotta per ristabilire il diritto delle genti violato da uno dei membri della comunità internazionale. Per quanto vari siano stati i criteri in base ai quali sono state distinte le guerre giuste dalle ingiuste, la communis opinio si è venuta orientando e consolidando nel riconoscimento della legittimazione di questi tre tipi di guerre, che la riconducono al concetto di sanzione: a) la guerra di difesa; b) la guerra di riparazione di un torto; c) la guerra punitiva. La seconda situazione in cui guerra e diritto non sono antitetici è esattamente opposta a quella testé presentata: si tratta della guerra intesa non come mezzo per restaurare il diritto stabilito, ma come strumento per instaurare un diritto nuovo, ovvero la guerra come rivoluzione, intendendosi per rivoluzione, nel senso tecnico-giuridico del termine, un insieme di atti coordinati allo scopo di abbattere il vecchio ordinamento giuridico e d’imporne uno nuovo. Chiamo questo modo d’intendere positivamente la guerra “guerra come rivoluzione”, perché la guerra così intesa sta ai rapporti internazionali come la rivoluzione sta ai rapporti interni: allo stesso modo che la rivoluzione può essere presentata sotto l’aspetto della guerra civile, la guerra eversiva dell’ordine internazionale può essere presentata sotto l’aspetto della rivoluzione nei rapporti fra Stati. La differenza fra guerra restauratrice e guerra instauratrice sta nel diverso diritto cui l’una e l’altra rispettivamente fanno appello: la prima al diritto positivo (consuetudinario e convenzionale), la seconda al diritto naturale. Guerre rivoluzionarie sono le guerre di liberazione nazionale: quando scoppiarono, nel secolo scorso, in Europa, i loro fautori si richiamarono al diritto naturale di autodeterminazione dei popoli così come la Rivoluzione francese si era richiamata al diritto naturale alla libertà degli individui. Ma questa differenza non toglie che la legittimazione della guerra avvenga attraverso il diritto e che attraverso questa legittimazione la guerra assuma un valore positivo e per contrasto la pace, sia in quanto passiva accettazione di un torto subito, sia in quanto mantenimento forzato di un ordine ingiusto, assuma un valore negativo.
Non si è forse riflettuto sinora abbastanza sull’importanza che ha il valore della sicurezza per la comprensione dell’azione politica, sia rivolta all’interno del gruppo politico e quindi ai rapporti tra governanti e governati, sia all’esterno e quindi ai rapporti dei gruppi politici fra loro. Il punto di partenza obbligato per una storia del concetto di sicurezza e del suo rilievo nella teoria politica è Hobbes, com’è stato ancora recentemente ricordato. Nello stato di natura, per la mancanza di un potere superiore che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto e sia in possesso della forza necessaria a far rispettare la decisione presa (ciò che Hobbes chiama la spada della giustizia per distinguerla dalla spada della guerra), il singolo individuo è insicuro e di conseguenza decide di comune accordo con altri individui, come lui per le stesse ragioni insicuri, di rinunciare ai propri diritti potenzialmente immensi ma fattualmente inesigibili per dar vita a un potere comune che sia in grado di proteggere coloro che gli si sono affidati: l’essenza del contratto politico sta nello scambio fra protezione e obbedienza. La protezione ha due facce: verso l’interno il sovrano deve proteggere ogni suddito nei riguardi di tutti gli altri; verso l’esterno li deve proteggere dagli attacchi che possono venire dagli altri sovrani. Il diritto alla sicurezza compare nelle prime Dichiarazioni dei diritti, quelle americane e quella francese, del 1789, e arriva sino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Si è esteso bene al di là della protezione della vita e della libertà nello Stato sociale contemporaneo, tanto da essere diventato, spesso anche a scapito di altri diritti, l’oggetto primario dell’azione dello Stato contemporaneo. Nel frattempo non è mai venuto meno, per quanto generalmente non dichiarato nelle carte costituzionali, il dovere dello Stato di garantire la sicurezza dei suoi cittadini nei riguardi degli attentati che possono venire ai loro beni e alle loro libertà da parte di altri Stati. Lo stesso diritto di sicurezza che il cittadino ha nei riguardi dello Stato, il singolo Stato ha nei riguardi di tutti gli altri Stati. Anzi la sicurezza dello Stato come ente collettivo deve servire in ultima istanza a garantire la sicurezza dei propri cittadini. Allo stesso modo che la garanzia del rispetto del diritto di sicurezza dei cittadini sta nel diritto che lo Stato ha di punire coloro che la minacciano, così la garanzia del diritto di sicurezza dello Stato nei riguardi degli altri Stati sta nel diritto che lo stesso Stato ha di ricorrere in ultima istanza alla forza punitiva della guerra. Guerra e sicurezza (nel suo aspetto esterno) sono dunque strettamente connesse, ed è proprio questa connessione che conferisce alla guerra, se pure in casi limite, una dignità assiologica che la pace, in quegli stessi casi, non ha. È pur vero che uno Stato è tanto più sicuro quanto più è in pace (la guerra è il regno dell’insecuritas). Ma è anche vero che la pace tra enti sovrani è tanto più stabile quanto più uno Stato, secondo il principio dell’equilibrio, è in grado di minacciare il ricorso alla guerra per difenderla. La massima fondamentale dell’etica politica, di un’etica per cui vale il principio che il fine giustifica i mezzi, come si è detto, è salus rei publicae suprema lex. La salvezza dello Stato è la legge suprema per i governanti, ma di riflesso anche per i governati. In quanto legge suprema ("suprema” significa che legge superiore a essa non v’è, almeno nella condotta politica) essa impegna i governanti e di riflesso i governati a fare tutto ciò che serve allo scopo: i governanti hanno il diritto di chiedere ai cittadini anche il sacrificio della vita, e i cittadini hanno il dovere, il «sacro dovere», così recita la Costituzione di uno Stato laico come la Repubblica democratica italiana (art. 52), di difendere la patria.
Alla formulazione di un giudizio positivo sulla guerra e negativo, per contrasto, sulla pace il maggior contributo è stato dato dalla teoria del progresso, intesa, secondo la formula kantiana, come quella concezione della storia per cui l’umanità è in «costante progresso verso il meglio». Dal punto di vista della teoria del progresso nelle sue diverse formulazioni, l’esecrazione della guerra è l’espressione di un sentimento soggettivo che non ha alcun contenuto razionale. Per l’uomo di ragione la guerra è un evento che non può essere giudicato indipendentemente da un giudizio globale sul corso storico dell’umanità nel passaggio obbligato, necessario, dalla barbarie alla civiltà. A chi non si limiti a giudicare la guerra dal punto di vista dei propri interessi e delle proprie preoccupazioni personali, ma la inserisca come un evento ordinario nel movimento storico universale, la guerra appare come un fattore di progresso e di converso la pace come un fattore, in certe situazioni, di regresso. In primo luogo, che la guerra sia stata necessaria, e lo sia ancora, al progresso tecnico è un luogo tanto comune che è persino stucchevole il ripeterlo. In un’età protesa verso l’esaltazione dei successi della scienza, H. Spencer (1904, p. 181) scriveva: «Nel corrispondere alle imperiose richieste della guerra, l’industria fece grandi progressi e guadagnò molto in capacità e destrezza. Davvero è da porsi in dubbio se in assenza dell’esercizio dell’abilità manuale destata primamente dalla costruzione delle armi, sarebbero mai stati costruiti gli strumenti richiesti dall’agricoltura e dalle manifatture». Se non ci fosse stata la necessità di sconfiggere la Germania nazista, gli scienziati americani avrebbero mai scoperto la fissione dell’atomo e una nuova forma di energia che ha inaugurato una nuova epoca nella storia umana? Che la guerra sia un fattore di progresso tecnico dipende dal fatto che l’intelligenza creatrice dell’uomo risponde con maggior vigore e con più sorprendenti risultati alle sfide che il contrasto con la natura e con gli altri uomini le pongono di volta in volta, e la guerra è certamente una delle maggiori sfide che un gruppo sociale debba affrontare per la propria sopravvivenza. In secondo luogo, la guerra è sempre stata considerata come necessaria al progresso sociale dell’umanità, perché rende possibile l’unificazione di sempre più vasti aggregati umani. Scriveva Cattaneo (1960, vol. iii, pp. 339-340): «La guerra è perpetua sulla terra. Ma la guerra stessa con la conquista, colla schiavitù, cogli esilii, colle colonie, colle alleanze pone in contatto fra loro le più remote nazioni; fonda il diritto delle genti, la società del genere umano, il mondo della filosofia». Quantunque inferiori allo scopo per cui sono sorte, la Società delle nazioni e l’Organizzazione delle nazioni unite – i primi tentativi di associazione permanente e universale degli Stati – non sono state un prodotto diretto delle due guerre mondiali? Infine, sebbene possa apparire al giorno d’oggi incongruo se non addirittura grottesco, quando la potenza sterminatrice delle armi può agire a distanza di migliaia di chilometri, quante volte la guerra è stata esaltata per il contributo che ha dato al progresso morale dell’umanità! Quante volte è stato ripetuto che la guerra sviluppa energie che in tempo di pace non hanno la possibilità di manifestarsi e induce gli uomini all’esercizio di virtù sublimi, quali il coraggio, il sacrificio di sé, l’amor di patria, che un lungo periodo di pace mortifica! Per una citazione non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ma quando si tratta di «rovesciamento di valori» insuperabile è Nietzsche (1965, p. 265): «Per ora non conosciamo altri mezzi, mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l’esistenza propria e quella delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell’anima, in modo altrettanto forte e sicuro, come lo fa ogni grande guerra». —