Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 30 Sabato calendario

Stefania Sandrelli ricorda

Sul set ho sempre portato con me risata e dolore, una fusione di stati d’animo che mi consentiva di lasciarmi andare. Fin da Divorzio all’italiana, un gioiello che racchiudeva la tinta fosca e il ridicolo, il dramma e la piccineria umana. Avevo 17 anni, nel 1961 ed ero incantata da una sceneggiatura perfetta e da un regista, Pietro Germi, che rideva, piangeva, cantava, si entusiasmava e s’arrabbiava guardando attraverso l’obiettivo.
Seguirlo era come seguire uno spartito, mettere in scena una coreografia». Il propellente della commedia all’italiana ha lanciato Stefania Sandrelli attraverso mezzo secolo di cinema, superando decenni, generi, generazioni di autori. Il Festival de la Comédie di Montecarlo, diretto da Ezio Greggio, ora le consegna un premio e l’attrice festeggia, con l’entusiasmo che a 75 anni l’accompagna, a parte certi piccoli sfoghi sulle angosce e i problemi che la vita non le risparmia.
Com’era da ragazzina?
«Sono cresciuta tra sette maschi, ma ero io quella autorevole, a cui il nonno fiorentino consegnava il soldone per comprare i “chicchi”, i dolci per tutti. Mi dava la responsabilità di andare in quel bellissimo negozio gestito da una vecchina dolce. Mi consideravo una regina, ma non mi prendevo sul serio. Ero una bimba vivace, ridevo tanto con le amiche, che però mi facevano anche soffrire, dovevo cambiare strada per non vederle, se troncavamo».
Quanto era importante l’allegria sul set?
«Fondamentale, anche perché allora i set erano faticosissimi. Quando mi chiedono a cosa ho rinunciato per il lavoro beh, rinunciavo a ridere. Ogni volta che finivamo una scena ero sull’orlo del riso. In quella della gelateria di Divorzio non sono riuscita a nasconderlo. Andavamo a fare il teatrino per il paese, papà Saro Urzì chiedeva a Buzzanca, il fratello geloso e scemotto che gelato volesse e lui, che aveva la febbre al labbro biascicava “oh io al pistacchio”. Il padre si arrabbiava, gli buttava il gelato sui denti, “stunk”, io ridevo come una matta, Lando se lo ricorda ancora. Al decimo ciak ho dovuto nascondere la bocca dietro il gelato.
Germi s’arrabbiava. E pure Scola, ricordo, in una scena con Gassman che raggiungeva me e Manfredi davanti alla scuola, ridevamo troppo sfacciatamente. Per tacere della scena alla trattoria della mezza porzione. Ma come si fa a resistere a dialoghi così? Con Bertolucci giravo Il Conformista, durante la cena con le bacchette, me ne cade una e inizio a ridere, lui non dà lo stop e io fingo di essere ubriaca, poi mi alzo. La scena è nel film».
Tra i registi chi la faceva ridere di più?
«Bernardo era allegro. E Roberto Benigni, in Il piccolo diavolo, mi fece preparare un posto speciale per assistere al défilé in chiesa, esilarante. I registi migliori erano quelli che godevano quando ridevo, era una manifestazione che apprezzavo, Roberto era tra questi».
E tra gli attori?
«Ho lavorato con i giganti. Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman, Villaggio. Mica facile tenere loro testa. Ma mi va di ricordare Dustin Hoffman».
Non il primo nome che viene in mente. “Alfredo Alfredo”?
«Sì. Di Dustin dicevano che fosse un po’ grossier, ogni tanto toccava il sedere di qualche sarta o parrucchiera ed erano urtati. Io non mi sono accorta di nulla. Mi sembrava toscano, come me, mi faceva molto ridere. E ricordo che aveva appena fatto Il laureato, per me era un mito.
Tra l’altro su quel set aspettavo un figlio, con mio marito dovemmo spostare le nozze a fine film. All’inizio dovevo fare entrambi i ruoli femminili, Caterina e Maria Rosa.
Quando gli dissi che non potevo girare — i suoi set erano faticosi e incinta non mi avrebbero assicurato – si inginocchiò, pianse “ti scongiuro”.
Tirò fuori il contratto con Hoffman e scoprii che il mio nome faceva parte dell’accordo. Così mi diede solo un personaggio. Nessuno doveva sapere che ero incinta, tranne Hoffman.
Nelle scene dei baci gli dicevo “Attento a come ti muovi che mio marito viene e fa uno scandalo”. Poi Dustin conobbe la famiglia, adorava “Amandina”, che gli dava i giocattoli in testa...ma mi ha sempre rispettato».
Catherine Spaak aveva rivelato le difficoltà sul set molto maschile di “L’armata Brancaleone”. Lei fece il sequel, “Brancaleone alle crociate”.
«Mai avuto problemi, ma sono cresciuta tra i maschi, so far valere la mia voce, e Monicelli apprezzava il carattere. Tra fata e strega non ho dubbi: in quel film ero la strega che tutti riempivano di improperi e veniva bruciata. In quella scena mi intossicai un po’ per davvero».
Con la Spaak eravate amiche?
«Il giorno dopo la sua morte sono stata male fisicamente, avevo un vuoto dentro. Catherine avrebbe potuto fare di più al cinema. La conobbi quando registrò un disco con Gino Paoli (il 45 contiene Perdono e Tu ed io, 1962). L’ho seguita negli anni, è stata brava nel reinventarsi in tv, con trasmissioni eleganti, importanti per le donne. Ogni volta che chiamava correvo, sapendo che sarebbe stata una cosa di qualità».
Nei giorni scorsi è tornata online l’intervista che la Spaak le fece nella vasca da bagno. Nel doc “Sex Story” Cristina Comencini cita la scena come emblema di liberazione, “immagine del divertimento, di quella frenesia che abbiamo conosciuto tutte noi all’epoca”.
«È vero, fu liberatorio. Catherine venne a casa, vide il mio bagno tutto in boiserie, accogliente: “Ci facciamo il bagno?”. Ci pensai un po’. “Nude?”.
E lei, “beh ma il bagno come lo fai?”
Mercanteggiammo sulla nudità, anche lei non era un’attrice ansiosa di spogliarsi, e mi fidai. Feci bene».
Al cinema la sua svolta sul nudo è stata “La chiave” di Tinto Brass.
«Una sfida con l’età. Avevo superato i quarant’anni, non ero più di primo pelo e si vede. Il fisico era tonico, ho fatto danza da ragazza, sono attiva, ma era quello di una donna della mia età. Un fisico naturale, che non mi vergognavo di esporre. Che non fossi malaccio lo sapevo da quando avevo portato il mio bikini da Viareggio per la scena di Divorzio all’italiana. Ma sapevo però che se mi fossi denudata gratuitamente in un film avrei poi dovuto farlo spesso, funziona così nel cinema. Allora l’ho evitato, è stato uno slalom nella carriera. La scelta di La chiave non fu a tavolino, ma spontanea...Ed era diverso dal filone di Pierino e le pernacchie».
C’è poi stata un’altra generazione di registi di commedia, da “Eccezzziunale...veramente” a “Vacanze di Natale”.
«Ricordo pareri discordi anche tra le persone che si occupavano di me.
Conoscevo Enrico Vanzina, uscivamo, ridevamo, tante cene.
Eccezzziunale lo presi davvero come un’occasione. Ero consapevole che non fosse il set di Germi o Scola, ma la parrucchiera di quel film era un personaggio delizioso. Non ho mai ragionato in termini di serie A e film minori. Se c’era amicizia, stima e una buona sceneggiatura non discriminavo. Quella di Vacanze di Natale era deliziosa. Stupenda quella di Mignon è partita, anche se a conquistarmi furono le lettere scambiate con Francesca Archibugi.
Ho sempre scelto in libertà».
Cosa la fa ridere oggi?
«Sono tempi difficili, il Covid, la guerra. E sono preoccupata per i giovani, per la mia nipotina. Mi ha appena fatto sorridere il video che mi ha mandato Giovanni (Soldati, il suo compagno, ndr) in cui cammina di nuovo, dopo un periodo durissimo.
Ogni giorno cerco di trovare la forza nel sorriso, come tutti noi».