ItaliaOggi, 30 aprile 2022
Saviano, la prostituzione e la baraonda del Corriere
Dio, come mi manca Nadia Macrì. Nadia Macrì, i meno implumi di voi se la ricorderanno, era la tizia che – quando le mignotte non le chiamavamo «sex worker» ma «escort» – andò da Santoro a raccontare che Berlusconi le aveva chiesto di cosa si occupasse professionalmente, e lei aveva risposto «Presidente, cosa vuole che faccia: le marchette».
Sto ripensando a Nadia Macrì da giorni, da quando al Corriere è in atto una farsa che oltre a quella di Nadia Macrì mi sta facendo sentire tantissimo la mancanza di Lina Wertmüller. Farsa che si può ricostruire solo di terza mano, giacché i protagonisti non si esprimono.
I protagonisti sono Roberto Saviano – che, come dicono i conduttori televisivi incapaci, non ha bisogno di presentazioni – e Monica Ricci Sargentini, redattrice del Corriere che fa parte del femminismo vecchio stile, che si distingue da quello postmoderno per essere più propenso a indignarsi per le cose concrete (dalla gestazione per altri alla prostituzione) che per quelle teoriche (dalle desinenze nelle lingue romanze alla sessualità dei cinquenni).
Accade che Saviano abbia una rubrica sul settimanale del Corriere, 7 (sì, neanch’io me n’ero mai accorta). Accade che in questa rubrica, qualche settimana fa, Saviano scriva che la prostituzione va legalizzata. Non è una posizione particolarmente sorprendente – bisogna non avere contezza dell’esistenza di Saviano per non sapere della sua convinzione che qualunque attività non venga legalizzata diventi fonte di guadagno per le mafie – e comunque nessuno se ne accorge, dato che nessuno sfoglia 7 («nessuno» è un’iperbole, lo dico per risparmiare a Linkiesta telefonate di puntualizzazione sulla popolarità dell’inserto del Corriere: in redazione a Linkiesta lo sfogliano tutti, manteniamo la calma, lo sapete che quella Soncini è sempre esagerata).
Nessuno sono io e siete pure voi – sì, sto storpiando Emily Dickinson – e, tra un nessuno e l’altro, qualcuno si offende tantissimo per questo editoriale di Saviano (c’è sempre qualcuno che si offende tantissimo per tutto, ve ne sarete già accorti) e indirizza a Luciano Fontana, direttore del Corriere, e Barbara Stefanelli, sua vice e responsabile di 7, una mail di protesta dal testo concordato (in gergo postmoderno: mail bombing). Fin qui è tutto normale, è quella dittatura che Elon Musk vuole imporre agli utilizzatori di Twitter: la libertà d’espressione consiste nel fatto che io posso scrivere le mie stronzate, e tu puoi scrivere che le reputi delle stronzate.
Possiamo ipotizzare che scrivere a un direttore per lamentarsi d’un editorialista sia tentata cancel culture? Secondo me no, in un paese ancora abbastanza sano di mente da non comportarsi come se uno valesse uno: quello è Saviano, e voi siete dei picchiatelli che scrivono delle mail. Mica lo licenziano per le vostre mail. Il problema è da qui in poi, quando il problema non è Saviano ma una dickinsoniana nessuno.
Da qui in poi, la ricostruzione abbisognerebbe delle voci dei protagonisti, ma Roberto Saviano al quale ho chiesto qualche giorno fa di raccontarmi non mi ha risposto, e a Monica Ricci Sargentini gli avvocati hanno consigliato di non parlare, quindi procediamo coi «si dice».
Si dice che un’amica della Sargentini le chieda cosa sia questa storia, lei le inoltri il testo della mail di protesta che sta girando, e questa fulmine di guerra, invece di fare copincolla, inoltri a sua volta la mail a Fontana e Stefanelli, facendo quindi risultare come ideatrice della tempesta di messaggi la Sargentini.
Si dicono, a questo punto, due cose diverse. L’azienda sostiene che a infuriarsi sia stata la direzione del Corriere; la direzione del Corriere sostiene sia stata l’azienda (cui però questa mail ormai più inoltrata dei meme su Zelensky qualcuno deve averla girata).
Fatto sta che succede una cosa che nessun ufficio del personale italiano ha mai visto: nel paese dei giornalisti illicenziabili, il Corriere della Sera chiede tre giorni di sospensione dalle mansioni e dallo stipendio per la Sargentini. Colpevole: di quella che Fontana definisce «una forma di intimidazione» (cioè: avergli mandato troppe mail); di aver inteso creare problemi, col sovraccarico di mail, al sistema informatico del giornale; e di aver tentato di lederne l’immagine. A me sembra leda più l’immagine d’un giornale, nel 2022, dire che se arrivano troppe mail i server non reggono, ma è sicuramente un’impressione sbagliata.
Poiché la situazione è come sempre grave ma non seria, il minuetto successivo a questa richiesta di sospensione include: il cdr che media chiedendo alla Sargentini una lettera di contrizione staliniana; le femministe che si stracciano le vesti perché la star Saviano non interviene a difendere la libertà d’espressione della redattrice carneade; l’ufficio legale che attende serenamente di perdere l’ennesima causa al tribunale del lavoro (quell’istituzione più italiana della pizza che serve a ribadire che non puoi licenziare nessuno mai, non se non si presenta al lavoro, non se timbra il cartellino e torna a dormire, figuriamoci se manda delle mail); Fontana e Cairo che giurano entrambi d’essere il poliziotto buono, e che la faccia cattivissima sia stato quell’altro a volerla fare; la ripubblicazione, ieri, d’un pezzo del 2016 della Ricci Sargentini sul cognome materno (le grandi battaglie civili italiane).
Io, che ho tanta nostalgia di quando Sandro Ruotolo chiedeva a Nadia Macrì se quella bigiotteria Berlusconi gliel’avesse regalata «senza prestazioni», nel ringraziare questo povero paese le cui élite culturali offrono ogni giorno uno spettacolo d’arte varia che rende superflui i comici professionisti, spero tantissimo che sia una manovra pubblicitaria tesa a farci d’ora in poi precipitare a sfogliare con bramosia 7 (che, non ricordo se l’ho già detto, a Linkiesta mandano tutti a memoria prima del cappuccino ogni venerdì).