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 2020  gennaio 19 Domenica calendario

Intervista a William Dalrymple - su "Anarchia. L’inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali" (Adelphi)

«L’aria qui a Delhi è tossica, e non soltanto per l’inquinamento», sospira William Dalrymple. Lo storico dell’impero islamico in India dà appuntamento a «la Lettura» a un passo dal sito Qutb Minar, con il suo minareto e la sua moschea patrimoni dell’Unesco, a ricordare l’inizio dell’era islamica in India. «I musulmani sono qui dal XII secolo: parlavano anche allora la stessa lingua degli indù, il persiano, si sposavano con le donne del posto e spendevano qui i loro soldi. Sono una grande minoranza ma oggi i nazionalisti indù al potere li vogliono marginalizzare», osserva lo scrittore scozzese, indiano d’adozione.
Dalrymple ha un gran da fare di questi tempi: soprattutto le presentazioni del nuovo libro The Anarchy (atteso in Italia a fine anno, per Adelphi) e il «suo» festival della letteratura di Jaipur, ormai alle porte. «La gente qui ha paura di parlare, si autocensura. Non lo avresti mai immaginato possibile in questo Paese, io stesso non scrivo più di politica e ora riesco a stare qui usando un visto per affari legato al festival letterario di Jaipur, e non più giornalistico, come avevo fatto per trent’anni».

   Forse però di politica Dalrymple non ha mai smesso di scrivere. Perché a leggerlo bene, The Anarchy – tra i migliori libri del 2019 secondo i principali quotidiani anglofoni (dal «Wall Street Journal» al «Financial Times», dal «Times» al «Telegraph») e pure per Barack Obama – non è soltanto un testo che getta una luce nuova su un periodo relativamente poco esplorato della storia indiana, quello tra la fine dell’impero islamico e l’inizio del colonialismo britannico, nel Settecento. Il crepuscolo del dominio Moghul iniziò dopo la svolta settaria di Aurangzeb, il figlio del sovrano che fece costruire il Taj Mahal, Shah Jahan. Mezzo secolo di intolleranza gli alienarono il consenso della gente e cancellarono la tradizione di dialogo avviata dal bisnonno, l’illuminato Akbar.
Sullo sfondo di quel passato, Dalrymple lancia un monito sul nostro presente. Con lo stile avvincente di un romanzo, racconta come in un’India ormai lacerata gli smodati interessi economici di una società privata inglese, la Compagnia delle Indie Orientali, abbiano fatto da apripista alla presenza britannica. Una globalizzazione ante litteram che appare subito come una forma d’imperialismo. «Lo Stato travestito da mercanti» sintetizza Dalrymple, citando un illustre testimone dell’epoca, Edmund Burke. «La Compagnia non è stata solo la prima grande multinazionale, è stata la prima a mostrare come grandi società possano diventare più potenti e a volte più pericolose di Stati o di imperi», spiega. Per questo, aggiunge, «l’India oggi dovrebbe temere più i cinesi dei pachistani».

   Delle 400 pagine di The Anarchy (più altre cento di glossario, note e indice) soltanto quattro, le ultime, contengono riferimenti al presente (per quanto la Cina non sia mai citata). La gran parte della narrazione, frutto di sei anni di ricerche d’archivio e viaggi in India e Gran Bretagna, è dedicata a dare conto di come una società privata straniera sia riuscita, di fatto, a schiavizzare un Paese di 200 milioni di persone. Non fu infatti il governo britannico a iniziare a occupare il territorio indiano a metà del Settecento. La transizione al colonialismo avvenne per mano di una società con «un piccolo ufficio, di cinque finestre, a Londra» che aveva come unico obiettivo quello di arricchire i suoi investitori. Nessuna «missione civilizzatrice», come amavano pensare i vittoriani secondo i quali il motore della storia era la politica di uno Stato, non i guadagni di società spregiudicate. A metà dell’Ottocento «ci fu un senso di imbarazzo» per il modo predatorio con cui i britannici fondarono il Raj. E, ricostruisce Dalrymple, «si assistette a una deliberata amnesia sul saccheggio privato che inaugurò il dominio britannico in India».

   «The Anarchy» inizia mostrando come una delle prime parole indiane a entrare nella lingua inglese sia stata «loot», saccheggio, di cui non c’era traccia prima del Settecento.

   «All’epoca del primo contatto tra i britannici e la dinastia Moghul, nell’agosto del 1600, l’impero indiano è al massimo del suo sviluppo, una superpotenza: controlla il 30% del Pil mondiale contro il 3% dell’Inghilterra.  Un secolo più tardi i rapporti di forza si sarebbero ribaltati. Nel 1799 la Compagnia aveva un esercito con 200 mila soldati, tra cui molti indiani, il doppio dell’esercito britannico. Iniziarono con i commerci di tessuti e finirono con l’occupazione di territori, razziando tutto e imponendo tasse. Ma il dominio dei britannici si consolidò anche grazie ai soldi dei banchieri locali che in quell’epoca di anarchia consideravano la Compagnia più sicura».

   Il titolo «The Anarchy» si riferisce allo sgretolamento dell’impero Moghul in tanti piccoli Stati nel Settecento. Lei però non ritiene che la Compagnia ebbe successo soprattutto grazie alle divisioni create dal terribile Aurangzeb (1618-1707, sovrano dal 1658).

   «Certo, la disgregazione che seguì la morte di Aurangzeb spianò la strada agli inglesi pronti ad approfittare delle rivalità locali e dell’odio tra indù e musulmani. Ma credo che il fattore cruciale sia stato il supporto che la Compagnia ricevette dal Parlamento britannico. Il rapporto tra i due divenne sempre più simbiotico durante il XVIII secolo, fino a trasformarsi in quello che oggi chiameremmo una partnership pubblico-privata. Ufficiali della Compagnia come Robert Clive, tornarono a Londra come nababbi, usando la loro ricchezza per comprare deputati; in cambio il Parlamento dotò la società di navi e soldati. A metà del Settecento, un quarto dei deputati possedeva azioni della Compagnia».

   L’India moderna è nata con la fine del colonialismo britannico, ma per i nazionalisti indù oggi al potere i più grandi «nemici» restano i musulmani, eredi dei Moghul. Capita che persino le guide turistiche locali oggi facciano trapelare il proprio disprezzo per le moschee nate sulle ceneri di antichi templi indù.

   «In India è montato un odio diffuso contro i Moghul che si riversa anche sui social. Siamo in un Paese dove anche la storia diventa un campo di battaglia, politicizzata e mitizzata. Per questo il mio libro qui è in testa alle classifiche: la gente apprezza la mia ricerca della verità. L’India è tutta concentrata a difendersi dal Pakistan. Anche al festival, per dire, non possiamo invitare autori pachistani. Ma la vera minaccia è la Cina. La grande storia non detta in questo Paese è che Pechino è chiaramente il più grande rivale».

   Il premier Narendra Modi ha stravinto le ultime elezioni ergendosi a difensore della nazione contro il Pakistan. Dopo questo trionfo lei stimava che per una svolta ci sarebbe voluta almeno una decina d’anni. Oggi, dopo oltre un mese di proteste contro la legge sulla cittadinanza che discrimina i musulmani, che previsione fa?

   «La situazione qui non è mai stata così tremenda, non si erano mai viste bande di uomini mascherati fare irruzione nei campus universitari e picchiare studenti e professori, con l’assenso della polizia. Questo è un nuovo livello di orrore. Con gli agenti che non fanno niente e lasciano andare i violenti impuniti: è terrificante. Siamo a un punto di svolta per il Paese».

Come vede il futuro qui in India?

«Sono molto preoccupato. Non si sa come andrà a finire, non sappiamo quale delle due parti sia più forte. Il tempo ce lo dirà, credo sarà una lotta lunga. Le proteste a Delhi non accennano a placarsi, anzi si rafforzano. Ma sono sorpreso di incontrare ancora tante persone che sostengono i nazionalisti indù. Un esempio: stamattina la mia insegnante di yoga ha buttato lì che i manifestanti dovrebbero andare a cercarsi un lavoro, li considera una fonte di problemi. Sono ancora in tanti a credere in Modi, è molto popolare come lo era da voi Mussolini».