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 2022  gennaio 27 Giovedì calendario

Intervista a Edin Dzeko

Nel gol al 90’ contro il Venezia che ha regalato la vittoria all’Inter c’è il pensiero scudetto di Edin Dzeko. L’attaccante bosniaco non segnava dal 4 dicembre, si è sbloccato e l’Inter si è goduta la pausa per ricaricarsi. Alla ripresa il derby.
Vi sentite favoriti? La vera rivale per lo scudetto è il Milan, il Napoli o chi?
«Siamo primi e vogliamo restarci fino alla fine. A inizio stagione si diceva Milan e Napoli, non si parlava tanto dell’Inter. Le grandi sfide le vuoi vincere, ma se perdi contro le piccole pesa di più. Se vinci il derby sei un pezzo avanti, però i punti scudetto li fai nelle partite con le piccole che devi fare tue per forza».
Si aspettava di avere un impatto così positivo o sostituire Lukaku le metteva ansia?
«Se vai in un posto e ti metti a pensare cosa ha fatto chi c’era prima di te è meglio che non vai da nessuna parte. Se lo avessi pensato solo per un istante non sarei mai venuto. So che cosa posso dare, ciò che sto facendo quest’anno non mi sorprende»
Doveva venire all’Inter due anni fa. Conte la chiamò?
«Già quando Conte stava al Chelsea mi voleva, ma non ero sicuro di tornare in Inghilterra. Appena arrivato all’Inter ci ha riprovato. Il momento è venuto adesso, le strade dovevano incrociarsi: era destino».
È stato il momento giusto per venire all’Inter?
«Non penso a quel che poteva essere. Sono in una squadra forte, con un nuovo mister che ha fatto vedere tanto alla Lazio. Abbiamo già fatto nostra la Supercoppa, per questo sono venuto all’Inter: c’è più possibilità di vincere».
Inzaghi con Dzeko ha cambiato l’Inter. Qual è il rapporto tra voi?
«Lo vedo ancora come un compagno di squadra. Sa gestire benissimo e per un allenatore è fondamentale. Ci sono 25 giocatori, non possono mai essere tutti contenti. Cerca di essere onesto con tutti. In campo se ci divertiamo così è grazie a lui. Ha tenuto la base di Conte, importante perché ha cambiato la mentalità dei giocatori, ma Inzaghi la porta avanti con i suoi metodi. Rispetto a quando c’era Lukaku il gioco è diverso. Negli ultimi due anni l’Inter giocava più in contropiede, quest’anno tutti si divertono di più, dentro e fuori. Io sono uno che sa giocare il pallone e non guarda solo al gol. Dicono che devo segnare di più, ma se non lo faccio e vinciamo è bello lo stesso».
Come vive i periodi in cui non segna tanto?
«Nel periodo in cui non ho segnato abbiamo vinto quasi tutte le partite: non puoi non essere contento. Se fossimo stati quarti, con me che segnavo poco mi sarei fatto delle domande: così che devo chiedermi? Siamo primi».
Ha giocato tre derby: Manchester, Roma e Milano. Qual è il più emozionante?
«Quello di Milano non l’ho vissuto abbastanza, è diverso quando gli stadi sono a capienza ridotta. A Roma si sente l’odio tra le tifoserie, è molto più pesante. Con il City ho vinto in casa dello United, con Sir Alex Ferguson che si mette le mani nei capelli dopo il mio gol del 6-1: indimenticabile».
Da Manchester a Liverpool, capitolo Champions. L’ultimo k.o. dell’Inter è stato con il Real Madrid: c’è troppo divario con i club europei?
«Non la vedo così. Con il Real Madrid abbiamo giocato due partite alla pari, la prima dovevamo vincerla e non eravamo ancora ai livelli di oggi. Il Liverpool è forte, li puoi battere ma puoi prendere anche 5 gol. Ce la giochiamo».
Lei è cresciuto in Bosnia, durante la guerra degli anni 90. Che infanzia ha avuto?

«Non facile. Quando la guerra è iniziata avevo 5 anni. I miei rischiavano la vita per andare a lavorare in fabbrica e portare il cibo in tavola».
Stavate a Sarajevo?
«All’inizio sì, poi era troppo rischioso, ci siamo spostati fuori città. dai nonni: in 15 in un appartamento di 40 metri. C’erano tanti bambini, i miei cugini: eravamo contenti anche se fuori era un disastro».
Durante i bombardamenti ha avuto paura di morire?
«Quando suonavano le sirene, ci portavano in cantina e non si sapeva se uscivamo dopo un’ora o un giorno. Lì avevo paura. Per fortuna i bambini dimenticano in fretta».
La sente questa differenza tra croati, serbi, bosniaci?
«Non è importante come ti chiami, l’importante è essere uomo: questo è sacro».
Ha avuto Mancini al Manchester City, si aspettava l’Italia in bilico per il Mondiale?
«Non pensavo finisse seconda nel girone, ai playoff è dura. Nessuno si aspettava che Mancini vincesse gli Europei, neanche gli italiani: ha fatto un’impresa. Per voi sarebbe un disastro restare di nuovo fuori dal Mondiale».
Il momento in cui ha realizzato che avrebbe sfondato?
«Il secondo anno in Bundesliga al Wolfsburg. Lì ho pensato: “A certi livelli ci posso stare”. Avevo fatto il salto».
Poi il passaggio al City.
«Se vuoi vedere chi sei devi andare in Premier con i migliori. Mi è andata bene».
Sarebbe rimasto più a lungo in Inghilterra?
«Sono andato via con ancora 3 anni di contratto, avevo rinnovato per restare, ma non andavo d’accordo con Pellegrini. Avevo quasi 30 anni, ero nel momento migliore della mia carriera, non volevo fare panchina, così ho scelto la Roma. Non ho rimpianti, anzi».
A Roma alti e bassi.
«Mi è mancato solo un trofeo: sono stati 6 anni splenditi. Un po’ di su e giù per me come per la Roma, la porto nel cuore. Ora sono all’Inter per vincere lo scudetto».

«Si poteva risolvere in altro modo: uno è un grande allenatore, l’altro una leggenda, un peccato sia finita così. Mi dispiace non aver beccato Totti prima, mi potevo divertire molto di più e anche lui. Ma me lo sono goduto, sono orgoglioso della strada fatta insieme». Ora c’è una via nuova con l’Inter, verso lo scudetto della seconda stella.