La Stampa, 27 gennaio 2022
Essere mamma a 44 anni
Ho quarantaquattro anni e tra due mesi nascerà mia figlia.
Ho trascorso senza figli quella che, con gli scongiuri del caso, potrebbe configurarsi come metà della mia vita. Come posso scegliere se stare con le mamme o con le non-mamme? Mi sentirò sempre a mio agio in entrambe le vesti, in realtà mi sento a mio agio con le storie delle donne, che sono sempre articolate e non così tanto dicotomiche, e mi sentirò sempre a disagio con ogni postura giudicante, da qualsiasi parte venga. Sono stata figlia di una madre ventenne e sarò una madre con il doppio dei suoi anni: anche questa distinzione tra primipare più o meno attempate, se diventa un campo di battaglia, mi fa ritrarre.
Mancano poco più di sessanta giorni a quella che ho imparato a chiamare DPP (una sigla che sembra un decreto, invece è la data presunta del parto) e comincio il commiato da quell’altra me, nella cui pelle ho abitato per così tanto tempo. Ho letto tutti gli interventi del dibattito avviato su queste pagine con la stessa attenzione con cui, negli anni, ho ascoltato o intuito le posizioni delle mie amiche rispetto alla maternità, sentendole a volte lontanissime e altre più vicine. Tutte rispettabili ma nessuna mai la mia. È giusto che sia così, ogni donna dovrebbe prendere parola: non esiste «la maternità», esistono le maternità, plurali, tante quante siamo, anzi di più. Chi ha più figli lo sa benissimo, anche meglio di me, soprattutto se fatti in età diverse.
Dunque, chi ero fino a sette mesi fa?
Non avevo bambini, ma non ne facevo certo una presa di posizione. Non escludevo di averne, ma se non li avessi avuti sarei stata felice lo stesso: semplicemente, ero da un’altra parte. Questa consapevolezza mi renderà una madre degenere? Questo lo deciderà la creatura che amo già più di me stessa quando le dirò, con molta onestà, che non è venuta al mondo per completarmi: il suo compito, semmai, è essere smodatamente libera e, se possibile, pazzamente felice. Quando ero molto giovane, per un periodo mi ero sentita vicina alle nullipare, ma certi strali contro le altre, le madri, mi avevano allontanata. Ho schivato il rischio di fare una bandiera della non-maternità, un rischio non migliore di quello di farla della maternità. Le storie delle donne sono complesse, la storia della maternità ha sempre oscillato tra oppressione e liberazione: in quel caposaldo che è Nato di donna, Adrienne Rich scrive che la maternità è la condizione più femminista che ci sia, e allo stesso tempo l’istituzione più patriarcale. Se penso ai tentativi di medicalizzazione della gravidanza che ho dovuto eludere in questi mesi, al modo in cui l’ostetricia – il regno delle donne – è stata ridicolizzata dalla ginecologia – a lungo il regno degli uomini -, alle recenti battaglie per rimettere al centro dell’esperienza del parto la volontà e il corpo delle donne, so esattamente di che parlo. So di che parlo se dico che dietro ogni «riposati!» strillato in gravidanze fisiologiche c’è un bisogno neanche troppo nascosto di esercitare un controllo sul corpo delle donne, e che la maggior parte dei farmaci o dei cosmetici sconsigliati in questi nove mesi non sono davvero nocivi: semplicemente, nessuno ritiene utile fare dei test seri per metterli a disposizione delle donne incinte. Da un lato, la donna in gravidanza è trattata come la sacra teca, dall’altro chi se ne importa dei suoi bisogni o desideri? Due facce della stessa medaglia: il corpo gravido è trattato come un contenitore.
Torniamo a quell’altra dicotomia: vuoi figli o non ne vuoi? Le sfumature non sono ammesse. Io, invece, me le sono prese tutte.
A dodici anni avevo cominciato a fare la baby sitter ai miei cugini, con quei soldi mi ero poi pagata i sabati sera dell’adolescenza fino all’università e intanto avevo imparato a cambiare pannolini, intrattenere insieme un neonato e un quattrenne, preparare paste al pomodoro semplici e profumate e molte altre cose che forse mi torneranno utili (o forse no, anche i bambini sono tutti diversi tra loro). Poi i miei cugini erano diventati grandi, io mi ero trasferita, avevo cominciato a scrivere. Intanto, le mie amiche facevano figli per caso, per sbaglio, per volontà, con ostinazione, con noncuranza, erano rimaste incinte da uomini sbagliati o da compagni perfetti, avevano analizzato la loro infertilità e scelto la fecondazione assistita oppure l’adozione. Qualche volta ci eravamo allontanate, perché i nostri mondi si erano naturalmente divisi, ma perlopiù a me piacevano i bambini, mi piacevano le mamme, mi piaceva la vita delle donne con tanta determinazione, mi piaceva un po’ meno quando qualcuna insisteva: e tu? Più che sentirmi offesa, mi sembrava una domanda un po’ impicciona e mi veniva da ridere perché più o meno mi stavano chiedendo cosa succedeva dentro le mie lenzuola prima ancora che nella mia testa. Pensavo a Bridget Jones quando diceva che una donna incinta, in fondo, è una costretta a confessare a tutti di aver appena fatto sesso. (Sento molto mio questo stralunato pudore britannico).
Poi, un giorno, i pianeti si sono allineati e a sorpresa è arrivata mia figlia. Io e suo papà abbiamo saputo subito che era femmina, dal primo giorno di ritardo. Sapevamo anche come si chiamava. E poi basta, non sapevamo più niente, il resto ce lo dirà lei: non abbiamo idea di chi sia, non la conosciamo e manteniamo su quasi tutto ciò che la riguarda un sentimento di stupita attesa. La frase migliore sulla maternità me l’ha detta una mia coetanea, quando, un po’ spaventata dal futuro, le facevo molte domande sui gusti e le abitudini di sua figlia, di pochi mesi: questo non lo so, ha risposto a un certo punto, la sto ancora conoscendo. Dunque, figlia: m’insegnerai chi sei, io ti regalerò l’universo intero e tu mi spiegherai pure quello. —