Avvenire, 27 gennaio 2022
Torna in libreria "Cere perse" di Gesualdo Bufalino
Ritorna in libreria nei tascabili Bompiani, per la cura di Piero Melati, uno dei libri più belli, intelligenti e meno frequentati di Gesualdo Bufalino. Mi riferisco a Cere perse (pagine 240, euro 13) che apparve per Sellerio nel 1985, a raccogliere scritti pubblicati in gran parte (esattamente 30 su 42) da Il Giornale di Indro Montanelli a partire però dal 1980, un anno prima del folgorante esordio di Diceria dell’untore, quando Bufalino aveva dato alle stampe due memorabili prefazioni: una a L’amor geloso di Madame de La Fayette, l’altra a Susanna e il Pacifico di Jean Giraudoux, proposti entrambi dall’editore siciliano.
Dati, questi, che emergono dalla preziosa Nota al testo: dove il curatore ci restituisce con puntualità, accanto al titolo attuale, quello originario e perlopiù redazionale. Evento confortante, questo, soprattutto per chi ha a cuore le sorti di questo elegantissimo prosatore, anche perché i raffinati volumi illustrati, rimessi in circolazione negli anni dalla Fondazione a lui intitolata, vengono riprodotti in tiratura limitata di cinquecento esemplari. Sono già usciti, per dovere d’informazione, i racconti di L’uomo invaso e altre invenzioni (2016), con l’introduzione di Giuseppe Traina e i disegni di Velasco Vitali, le poesie di L’amaro miele (2020: nel centenario della nascita), a cura del direttore scientifico della stessa Fondazione, Nunzio Zago (ancora oggi il più attrezzato degli interpreti di Bufalino), coi dipinti di Alessandro Finocchiaro, infine - pochi mesi fa - il romanzo Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, di nuovo a cura di Nunzio Zago, coi dipinti di Giovanni La Cognata.
Ma torniamo a Cere perse: un libro in cui il formidabile elzevirista si cimenta con una vasta materia, armato d’una straordinaria ironia e d’una disinvoltura culturale che non ha avuto pari in Italia in questi decenni. Basta sfogliarlo anche distrattamente: vi troverete accanto a vertiginose pagine su Borges, su Gide lettore di Dostoevskij, su Flaubert, su Brancati, o magari dedicate a una difesa del congiuntivo oppure al gioco degli scacchi - persino un’irrinunciabile riflessione sul ’modello 740 per la denunzia dei redditi’ o un’esilarante (’umoresca’) disquisizione sull’insonnia. Le questioni, come scrive il curatore, sono quelle di sempre, ad alta temperatura letteraria e metafisica: «Pur nella varietà (e occasionalità) dei testi riproposti, Bufalino conferma la fedeltà ai suoi temi: la riflessione sulla scrittura, la Sicilia, la cupiditas legendi, la memoria, la morte».
Cominciamo allora dal titolo, di cui è il medesimo Bufalino a dare ragione nel preambolo Reddo rationem: «’Persa’ si dice la cera che lo scultore modella fra due blocchi di terra refrattaria e che, esposta al fuoco, si scioglie lasciando di sé soltanto un’impronta vuota». Ciò significa che lo stesso destino è riservato anche agli articoli di giornale, buoni dunque per il macero? Non è detto: «Se è vero che al segreto delle carte occasionali un autore affida assai spesso il ritratto suo più credibile; e che dai suoi pensieri e umori spaiati può svelarsi infine un concorde paesaggio morale e sentimentale». Ma basterebbe anche, a giustificare la presente raccolta, qualora si ritenesse la motivazione appena avanzata una mera scusa, la fugace soddisfazione dovuta al «semplice vedere raccolte in riga e sottomesse a un disegno tante pagine vagabonde».
Ho indugiato nella citazione perché ci documenta subito e benissimo quel modo solo suo di ragionare, dilemmatico se non causidico, di sottomettere, insomma, ogni argomentazione alle corrosive ragioni della contraria. Del resto, leggere queste pagine significa, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona, tornare a riascoltare la sua voce. Bufalino vorrei sottolinearlo - scriveva come parlava, il che vale come un indubbio miracolo: per una lingua così ardita, stratificata e carica di risonanze come la sua, in un Paese in cui lo iato tra la parola parlata e quella scritta è stato per molti secoli incolmabile. Una lingua nutrita di iperboli e ossimori che coincideva esattamente col suo pensiero, malgrado le metafore che continuamente vi fiorivano, se non addirittura in forza di esse. Piero Melati, nella prefazione, detta un bel ritratto dello scrittore: una sorta di apprendista mago che vorrebbe avere il «potere di fermare il tempo», ma correndo continuamente il pericolo «di restare prigionieri del proprio stesso incantesimo», che peraltro «non resiste più di un istante». Giusta la contrapposizione tra Bufalino e Sciascia, nonostante il «sentimento di amicizia sincera e rasente la purezza» che li legava: nel secondo «sentiamo muoversi la potenza della ragione e gli arabescati tessuti del ragionamento pascaliano». Nel primo no: se è vero che «ogni suo saggio, studio, elzeviro, trasuda poesia».
Sì, Bufalino è stato un grande poeta, soprattutto in prosa. Perché i tempi erano prosaici. A rileggerlo non si può non constatare come il suo ironico e furioso cinismo si nutrisse d’un quotidiano elogio del buon senso, che praticava massimamente nella vita. Ma la sua anti-modernità lo spingeva verso un ilare estremismo metafisico, dissimulato sotto i panni borghesi d’un conservatore illuminato. Cristiano ateo e tremante si definiva: per libri all’incrocio tra retorica e pieta? Dove la retorica stava a indicare i lussi del lessico e della sintassi, mentre la pietà era per gli spasmi del suo concitato personaggio- uomo. Ma tre erano i suoi nemici principali: quella Natura, madre di parto e di voler matrigna, che aveva scoperto in Leopardi. Poi la Storia, brutale e cieca: le cui strade vedeva lastricate da fossili ideologici. Infine un Dio di cui non si decideva ad accettare l’esistenza: perché temeva di doversi rassegnare alla presenza di un grande baro che s’ostinava a giocare coi piccoli uomini interminabili partite truccate. Era un uomo di rara mitezza e bontà. Non ho alcun dubbio sul fatto che quel Dio, col quale ha combattuto tutta la vita, l’abbia salvato.