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 2022  gennaio 26 Mercoledì calendario

Ode a Matteo Berrettini


Ma perché l’Italia non guarda da questa parte del campo? A questa First Dance? Perché non impara a crescere, a costruirsi, a diventare solida come Matteo Berrettini? Invece di litigare, distrarsi, annullarsi. Guardi da questa parte della rete chi vuole aiutare i nostri ragazzi a capire chi sono e dove possono arrivare. E anche chi studia e insegna la maturità, impari da Leopardi sì, ma anche da «Ode a Matteo», da questo esemplare con la racchetta capace dopo le lacrime di ritrovare la serenità e di capire che le pozzanghere sono solo capitomboli e non condanne per l’eternità.
Guardi non a questo successo, non alle quasi quattro ore di battaglia, primo italiano di sempre in semifinale a Melbourne, ma a quello che c’è dietro a un ragazzo normale che ha vissuto il nostro tempo (pandemia) e che in Italia appena due mesi fa alle Atp Finals ha dovuto abbandonare il sogno per una fitta profonda al muscolo addominale.
Vogliamo dirlo? Quando ti giochi il mondo in casa e devi dirgli addio, perché sei ferito, non la prendi bene, soprattutto a 25 anni. Ti senti sbagliato, tradito, maledetto. Ma lui l’aveva promesso: «Dopo una batosta rimbalzo quasi sempre all’insù». Non era facile battere Monfils alla sua Last Dance. Per il francese, 35 anni, tatticamente intelligente, molto esperto (da 18 anni nel circuito), atleticamente forte, più centrato del solito e meno predisposto alle sceneggiate, era l’ultima occasione. E infatti ha servito 15 ace, con 216 km/h di velocità massima e con la voglia di non cedere (epico il quarto game del secondo set durato 20’). Ma Berrettini, questo all-italian boy 2.0, di nuova generazione, cosmopolita e poliglotta, in cinque set ha fatto vedere che oltre alla «corsa al colle» c’è un’Italia sportiva che corre a rete, a suo agio sul veloce, capace di essere misurato e vincente anche davanti ai microfoni e fuori dal campo. Sui fan francesi che lo hanno insultato ha detto: «Alcuni di loro non mi sembrano appassionati di tennis».
Nessuna polemica, a parte quell’ostinato e umano «non sento, non sento» alla fine del match, come a dire: perché non urlate adesso? Non si tratta di celebrare la solitudine dei numeri primi (forse arriverà anche Sinner) né la straordinarietà, primo italiano a raggiungere i quarti in tutti gli Slam, primo finalista sull’erba di Wimbledon in 144 anni, primo ad aggiudicarsi il torneo del Queen’s, primo ad aver giocato due Atp Finals, ma di capire che la forza tranquilla di Matteo dà all’Italia un campione che non aveva mai avuto. Servizio potentissimo che piove da molto alto, contro Monfils ad una velocità massima di 220 chilometri orari (in media ha servito la prima a 192 e la seconda a 158), dritto slacciato e feroce, serve and volley, capacità di sopportare il dolore.
Quasi mai lo sport è casuale: contro Monfils agli Open Usa del 2019 Matteo si era segnalato come nome eccellente (sempre nei quarti, sempre in cinque set) e allora come oggi Nadal è il prossimo avversario. Non si tratta solo di vincere o di perdere. Ma di come sai reagire, migliorarti, amministrarti, aggiungere qualità e umanità, senza essere inutilmente aggressivo o trasgressivo. Perfino nella carezza alla testa di Ajla, la sua fidanzata tennista, dopo il successo su Carreno Busta, c’era il rispettoso pudore di chi non considera la sua donna come un’ancella, ma come una compagna che ha diritto al suo spazio. Se sei capace di diventare (almeno) il numero 6 del mondo (Panatta è stato quattro), se sei capace di continuare a guidare quando la spia della benzina è già rossa da un’ora («A un certo punto sono andato in folle, altrimenti al quinto sarei morto»), come segnalato dal labiale («Perché non ce la faccio più?»), se con il servizio spuntato e il dritto meno efficace, ti affidi al cuore, alla voglia di non mollare, e risali, vuol dire che sei capace di capirti e di capire il mondo. E che sei un avversario ostico per tutti. Noi ti sentiamo, Matteo.