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 2022  gennaio 26 Mercoledì calendario

Intervista a Claudio Santamaria

Chiuso nel cappotto nero, lo sguardo indagatore, Matteo (Claudio Santamaria), postulatore del Vaticano in cerca di miracoli, non può credere che Christian (Edoardo Pesce), picchiatore che si guadagna da vivere recuperando crediti per conto di Lino, boss della gigantesca Città-Palazzo, abbia le stimmate.
Eppure quel ragazzone ai margini fa miracoli; in un mondo estremo, violento, mantiene la sua purezza.
Supernatural e crime, Christian, la nuova serie prodotta da Sky e Lucky Red, diretta da Stefano Lodovichi e da Roberto Saku Cinardi, da venerdì su Sky e NOW, racconta la periferia, la fede, i “mostri” dal volto umano. È liberamente ispirata alla graphic novel Stigmate da cui Cinardi dieci anni fa aveva già tratto un corto interpretato da Gabriele Mainetti, poi regista di Lo chiamavano Jeeg Robot.
Come nel film cult la storia si svolge a Roma, nell’immaginaria Città Palazzo, il serpentone di Corviale in cui, con le loro miserie e la loro umanità, vivono tutti i protagonisti.
Nel cast: Giordano De Plano, Silvia D’Amico, Antonio Bannò, Lina Sastri, Francesco Colella.
Santamaria, era Enzo Ceccotti, protagonista di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: c’è un punto incontro con Christian?
«Sono due mondi che si toccano. Jeeg robot è stato un apripista. Vogliamo tornare a divertirci con il cinema, con storie che non parlano solo dell’ombelico di chi le ha scritte.
Anche Il miracolo di Niccolò Ammaniti trattava il mistero. C’è bisogno di tornare al genere, di capire che il cinema è divertimento, colto e raffinato».
E si può puntare sui supereroi?
«È una grande idea e dobbiamo farla nostra, puntando sul realismo e tematiche sociali importanti, cosa che la commedia all’italiana faceva benissimo. In America apri un armadio e esce un supereroe, noi dobbiamo fare un percorso più faticoso. Sento una forza creativa e nuova fiducia nel cinema italiano: si sta prendendo coscienza che noi italiani non siamo secondi a nessuno. È un peccato che il mercato sia ridotto, le serie invece vanno oltre i confini dell’Italia. E le piattaforme hanno alzato il livello della sfida».
Matteo dal Vaticano esplora la periferia.
«Per lui il luogo dove vive Christian è l’inferno, un inferno bene organizzato che ha una sua aggregazione nata dalla violenza. La serie è bellissima. Matteo è un personaggio complesso, conflittuale: vive nella contraddizione, lotta con se stesso e con la tenuta della propria fede. Spera di trovare un miracolo vero, spesso sono volgari truffe. La sua ricerca è spinta dal proteggere la fede vera, ma è anche qualcosa di personale. Trova Christian e gli viene il dubbio: perché lui? Perché un criminale? Ma forse Gesù avrebbe scelto qualcuno ai margini, addirittura un criminale. Matteo è un po’ San Tommaso e un po’ Isacco».
Lei che rapporto ha con la fede?
«La fede è sempre complicata. Io sono credente nel senso che credo in una entità, in un’intelligenza superiore che si chiama Dio. Credo che ognuno abbia la sua chiesa interna dove incontrare questa coscienza superiore. C’è una voce che ci dice cosa è giusto e sbagliato: se la scintilla di Dio deve essere qualcosa, è quella della giustizia».
Com’è cambiato negli anni il suo modo di lavorare?
«Più le cose diventavano semplici più andavo a cercare la scomodità. Un amico mi disse: “Devi recitare come se nell’armadio ci fosse un cobra, essere vigile”. Il pericolo rende un attore vivo».
Sua moglie Francesca Barra ha influito nelle sue scelte artistiche?
«Le cose belle influenzano il nostro lavoro. Nel caso di Francesca l’amore ha reso forte una parte di me che prima era fragile, c’è stata una maturazione. Oggi sono padrone di quello che mi succede fino in fondo, capisco chi sono le persone che voglio intorno».
Tra pochi giorni nascerà vostra figlia. Cambierà il suo modo di essere padre?
«Ripeto il detto: “Figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi”. Bisogna stare molto attenti, essere amorevoli e dolcissimi quando i bambini sono piccoli, più crescono più devono essere guidati. Sono preoccupato per l’adolescenza, non bisogna essere amici perché fare il genitore giovanile che non vuole il conflitto è fallimentare. I genitori devono controllare, oggi i confini sono più vasti. I ragazzi pensano di avere il mondo in mano perché hanno uno smartphone».