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 2022  gennaio 24 Lunedì calendario

Su "Maledetta Sarajevo. Viaggio nella guerra dei trent’anni. Il Vietnam d’Europa" di Francesco Battistini e Marzio G. Mian (Pozza)

Sarajevo è un nome che evoca storia, la storia del Novecento. Ed è anche un nome che gronda sangue, prima l’immane strage della Prima guerra mondiale e poi, negli ultimi anni del secolo, il più lungo assedio di una città e della sua popolazione, più lungo di quello di Leningrado durante l’attacco nazista all’Urss. Lo storico britannico Christopher Clark descrive mirabilmente nei suoi Sonnambuli come le potenze dell’epoca arrivarono nel ’14 a una guerra che nessuno voleva ma che nessuno era disposto a prevenire. Fino a quella domenica del 28 giugno (il fatidico giorno di San Vito) quando l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia arrivarono in treno a Sarajevo e lì furono assassinati da Gavrilo Princip innescando la Prima guerra mondiale. Ma Sarajevo ha fatto la storia anche in tempi molto più recenti, quando la Jugoslavia nata nel ’45 cominciò a disgregarsi, quando gli indipendentismi balcanici degli anni Novanta fecero esplodere quell’enorme serbatoio di odio, di nazionalismi, di contrapposizioni religiose che il maresciallo Tito aveva sino ad allora talora soffocato, tal’altra diluito con una sapiente distribuzione di privilegi. È a questa guerra, la guerra dove la Jugoslavia si dissolve in un bagno di sangue, che hanno dedicato la loro fatica (Maledetta Sarajevo, in libreria da giovedì 27 gennaio pubblicato da Neri Pozza) l’inviato speciale del «Corriere della Sera» Francesco Battistini e Marzio G. Mian, giornalista autore di reportage in 56 Paesi del mondo.

Una fatica preziosa, capace di spiegare in termini semplici e chiari l’orrore che molti di noi ricordano come un fenomeno inspiegabile, feroce, lontano dalla nostra storia del dopoguerra eppure vicinissimo, appena al di là dell’Adriatico. Perché nulla del genere era successo in Europa dal 1945. Perché mai prima la Nato aveva svolto una campagna di attacchi. Perché non si capiva, nel grande pubblico, chi stesse massacrando chi, quali maschere nascondessero i responsabili, quali parti in causa praticassero con sistematica ferocia la pulizia etnica, che aveva nelle donne le prime vittime designate. Cinque guerre, duecentocinquantamila morti, due milioni e mezzo di profughi, tutto questo per far nascere la Slovenia e la Croazia (oggi membri dell’Unione Europea), la nuova e ridimensionata Serbia, la Macedonia, la Bosnia Erzegovina, il Kosovo.

E tutto porta a Sarajevo, prima con il lungo assedio dei serbi, poi con il genocidio nella non lontana Srebrenica, di nuovo ad opera dei serbi ma con gravi passività da parte di europei in divisa Onu. In apertura del loro lavoro Battistini e Mian riassumono una storia intricata con lucidità e chiarezza, dagli scontri tra l’impero austroungarico e quello ottomano alla nascita della «Terra degli slavi del sud» voluta e guidata da Josip Broz Tito, il capo partigiano che si era liberato da solo, che aveva dato vita al movimento dei non allineati, e che sapeva domare con le buone o con le cattive i bollori della sua federazione. Era croato, Tito, ma ricordo per aver seguito la sua agonia nel 1980 che gli arrivavano testimonianze di stima da tutte le Repubbliche, e la serba Belgrado tratteneva il respiro. La sua morte, certamente, facilitò il crescere delle tensioni interne che già si erano manifestate negli anni precedenti. E non stupisce allora che la transizione fallisca, e che il 16 settembre 1991 la Jugoslavia cessi di esistere. Arriva il tempo delle guerre e delle esibizioni di crudeltà. A Vukovar, in Slavonia, si consumano orrori indicibili. E poi, che fare con quella Bosnia dove convivono ortodossi e musulmani, dove esistono minoranze serbe e croate, dove ora al fanatismo del presidente islamico Alija Izetbegovic si contrappone il fanatismo serbo-ortodosso di Radovan Karadzic? Sarajevo è stata per anni un esperimento di multiculturalismo e di convivenza etnica e religiosa, ma non resisterà all’urto dell’odio. Arriva il più lungo assedio del Novecento. Arriva nell’aprile del 1992, e non finirà prima del febbraio 1996. Molti hanno già lasciato la città, e Sarajevo è praticamente indifesa. I serbi assedianti occupano le colline e lì sistemano cannoni, mitragliatrici pesanti, mezzi corazzati che aspettano l’ultima offensiva.

E soprattutto, ci sono i cecchini. Sparano su tutto e su tutti, soprattutto sui civili, anche donne, anche bambini. Occorre spezzare la volontà di resistere dei bosniaci. Ma la volontà sopravvive, anche grazie a un tunnel che fa arrivare armi, cibo, e consente a chi vuole di fuggire. A Sarajevo non c’è più elettricità, manca l’acqua potabile, non c’è riscaldamento. Ma la città non cede. Le vittime saranno più di 12 mila, i feriti 50 mila, e i cecchini faranno più danno dei cannoni. La strage continua, e il 5 febbraio del 1994, nel mercato rimasto sempre aperto, una bomba (secondo qualcuno una autobomba dei musulmani) uccide 68 civili e ne ferisce 200. È l’inizio di una nuova fase, che porterà all’intervento militare della Nato.

E non si può certo dimenticare Srebrenica. Anche lì i serbi assediano la popolazione musulmana, ma in città ci sono i militari olandesi in veste Onu. Karadzic garantisce, assicura, accarezza i bambini, poi dà l’ordine di separare gli uomini dal resto, li trasporta poco fuori città e ne ammazza ottomila. Ancora oggi si cercano i resti. E nessuno può cancellare una foto celebre, di una donna che si è impiccata a un albero per non cedere. Vergogna, degli olandesi, dell’Onu e di chi non ordinò immediati attacchi aerei che per la verità i caschi blu olandesi avevano richiesto.

Il racconto di Battistini e Mian è pieno di personaggi che ricordano e raccontano, si parla anche di musica, di cultura, di libri, di artisti, di quello che è sopravvissuto e che è stato cruciale per superare, con l’apporto formale ma fragile degli accordi di Dayton, il colossale trauma vissuto dalle popolazioni civili. Noi occidentali abbiamo fatto abbastanza, stiamo facendo abbastanza? In realtà siamo anche noi inseguiti da un dilemma crudele: ingresso in Europa per tutti i Balcani occidentali con il rischio fortissimo di balcanizzare un’Europa già fragile, oppure altre promesse non datate in attesa di tempi migliori? Quelle guerre pesano su tutti. E proprio in Bosnia, proprio a Sarajevo e nelle entità serba e croata della Bosnia, è in corso un braccio di ferro che sa di amarcord. Come se non si dovesse dimenticare e superare, invece di ricordare.