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 2022  gennaio 25 Martedì calendario

Nelle trincee del Dombass

Maksim aveva 18 anni quando partì per il Donbass. Era il 2014 e in questa guerra dimenticata combattuta ai confini dell’Europa ha perso molti amici, non le speranze di ricacciare «i russi fuori dall’Ucraina». Mette in spalla il mitragliatore Ak47 e dalla mimetica sfila un cellulare zeppo di immagini, i ricordi di questi otto anni vissuti al fronte. C’è anche il filmato dell’imboscata in cui finì a Shirokyne, fronte Sud, Mar d’Azov. Lo mostra perché teme di non essere creduto se descrivesse solo con le parole cosa ha vissuto. Il video è un interminabile diluvio di fuoco. «I separatisti ci attendevano in cima a questa collina, nascosti nel cimitero: venti minuti ininterrotti di scontri, poi hanno ripiegato. Uno dei nostri non ce l’ha fatta». Impossibile entrare nel piccolo camposanto perché i filorussi lo hanno minato prima di abbandonarlo. Del resto, tutto qua attorno è disseminato di ordigni esplosivi: le case, la scuola, i campi una volta rigogliosi di grano. Solo la chiesa è stata risparmiata, anche se qualcuno su un muro ha inciso una scritta rabbiosa «L’unica luce di Dio è quella di una chiesa che brucia».
Da queste alture sferzate dal vento i separatisti bombardavano Mariupol, centro importante per il porto e per le enormi acciaierie che non hanno mai smesso di ammorbare l’aria e bruciare il carbone proveniente dai territori occupati nonostante il conflitto: potenza degli affari, potenza dell’oligarca Akhmetov. Nel 2015 da qui partirono i razzi Grad che fecero strage in un mercato alla periferia della città, lasciando sull’asfalto trenta morti e un centinaio di feriti. «La pace russa», sibila Maksim. Per espugnare Shirokyne ci volle quasi un anno ma l’Ucraina pagò un prezzo altissimo: «Morivano quattro cinque compagni tutti i giorni». Oggi di questo villaggio non restano che macerie incolori, carcasse d’auto arrugginite, brandelli di lamiere che il vento agita incessantemente. Il Mar d’Azov è li, a due passi, quieto ma irraggiungibile perché blocchi di cemento e filo spinato lo separano dalla spiaggia disseminata di ordigni esplosivi.
Il fronte del Donbass parte da questo posto sperduto, poi si spinge a Nord lambendo Donetsk e Lugansk, «capitali» delle due omonime autoproclamate Repubbliche popolari, i territori che i separatisti armati da Mosca hanno strappato all’Ucraina assieme alla Crimea. Quattrocento chilometri di trinceramenti, reticolati, bunker; un confine che in otto anni è costato oltre 13.000 morti, migliaia di feriti, più di due milioni di sfollati. E immense distruzioni. Nelle postazioni ucraine si attende l’offensiva di Mosca, ne parlano in continuazione i notiziari. Ma non si respira tensione, tutto sembra pronto per reggere la spallata militare minacciata da Putin. Gli aiuti promessi da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada stanno raggiungendo il fronte: sono i micidiali missili Stinger e Javelin pronti ad arrestare i carri russi, se mai muoveranno verso Occidente passando dal Donbass. Nell’attesa, i soldati approfittano dell’inverno insolitamente mite (meno cinque è poca cosa da queste parti) per scavare nuovi camminamenti o migliorare quelli esistenti. È sfiancante lavorare in mezzo al ghiaccio, che di giorno si trasforma in fango viscido, sotto il tiro costante dei cecchini che non concedono distrazioni, errori, stanchezza. In alcuni punti le postazioni nemiche distano solo poche centinaia di metri e con i periscopi si può scorgere chiaramente il fumo che si leva dai loro avamposti. A Promka, zona industriale incuneata tra Avdiivka e Donetsk, si continua a combattere tra i resti dei capannoni sventrati dalle esplosioni, come a Stalingrado nella Seconda Guerra mondiale.
Il paesaggio è spettrale, sbiadito, surreale: crepitano le mitragliatrici, schioccano i colpi degli «sniper». Poi all’improvviso i tonfi ovattati dell’artiglieria filorussa che, nonostante gli accordi, continuano a martellare incessantemente le linee ucraine, da Nord a Sud, senza tregua. I colpi sibilano alti sopra la nostra posizione, proseguono oltre, si schiantano liberando una densa e alta colonna di fumo bianco. È andata bene ma qualcuno impreca lo stesso, maledice la politica che ha trasformato l’esercito ucraino in «carne da cannone». Perché ai calibri da 120 e da 80 millimetri che piovono sulle loro teste, possono rispondere solamente con i Kalashnikov e le mitragliatrici pesanti. Davide contro Golia, insomma, in una lotta impari che continua a mietere vittime, ogni giorno.
«Avremmo già potuto riprenderci il Donbass, invece siamo ancora qui a morire, merce di scambio della diplomazia», sbotta un veterano. Terminato l’attacco la vita fa un altro giro di giostra, si torna immediatamente alle occupazioni interrotte: c’è chi spacca la legna per scaldare i ricoveri, chi approvvigiona le scorte d’acqua, chi riempie sacchi di terra per proteggere le postazioni dalle schegge dei mortai.
Chi può riposa nei letti a castello collocati, Dio solo sa come, in dormitori bui e angusti, scaldati da piccole stufe che nulla possono contro l’umidità che trasuda dalla terra. Alle quattro e mezza il cielo comincia a imbrunire, il sole va giù velocemente. Grek, il comandante di un gruppo di esploratori, all’improvviso fa cenno di non parlare, sporge la testa fuori dalla trincea quanto basta per non farla inquadrare dai cecchini. Tende l’orecchio, indica un punto quasi invisibile nel cielo. Lontano, giunge un ronzio fastidioso: è un drone killer che si sta avvicinando con il suo carico di bombe a frammentazione tascabili. Nel Donbass da qualche tempo si combatte anche in questo modo, con piccoli velivoli radiocomandati, trasformati artigianalmente in precisi strumenti di morte. «I quadricotteri russi sovente attaccano in coppia: uno ti distrae, l’altro ti colpisce alle spalle», spiega Grek. La Lituania, altro Paese minacciato dalla Russia, ha fornito all’esercito ucraino centinaia di jammers, fucili elettronici in grado di accecare i droni. Funzionano, ma non sempre è facile salvarsi dalle incursioni. A Shakta Budovka la torre della miniera non c’è più. I carri armati russi l’hanno abbattuta sperando di cancellare per sempre il simbolo – e il mito – dell’avamposto ucraino che ha bloccato i separatisti all’aeroporto di Donetsk. Ora giace accartocciata su se stessa, in bilico sul pozzo profondo oltre mille metri che un tempo portava in superficie il carbone. Pare una metafora dell’abisso in cui questo Paese sta cercando disperatamente di non precipitare. Su una traliccio dilaniato dalle esplosioni qualcuno ha scritto: «Gloria all’Ucraina! Gloria agli eroi!». Buona fortuna Ucraina. Buona fortuna, Europa. —