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 2022  gennaio 24 Lunedì calendario

Telecom Italia, storia di un delitto


Poco più di 20 anni fa Telecom era il sesto operatore al mondo, oggi è diciassettesima. E non è colpa del mercato. Allora come ha fatto a ridursi così? Partiamo dall’inizio. Telecom nasce nel 1994 dalla fusione di Iritel, Telespazio, Italcable e SIRM, società del gruppo pubblico STET. Nel 1995 lancia Tim, il primo operatore italiano dedicato alla telefonia mobile. Nel 1997 è la quarta impresa in Italia per fatturato, non ha debiti netti, conta una trentina di partecipazioni internazionali, un patrimonio immobiliare pari a oltre 10 miliardi di euro e 120.345 dipendenti. Nello stesso anno il governo Prodi, per mettere a posto i conti ed entrare nell’euro, decide di privatizzare il meglio che c’è. Le azioni Telecom sono collocate sul mercato e dalla vendita del 35,26% del capitale si ricavano 26 mila miliardi di lire (circa 14 miliardi di euro). Un gruppo di banche e imprenditori acquista appena il 6,6% delle azioni, e la famiglia Agnelli con solo lo 0,6%, assume il comando. L’azionariato oltre ad essere poco solido è anche litigioso.
I capitani coraggiosi offshore
Nel 1999 una cordata di imprenditori guidata da Roberto Colaninno, numero uno di Olivetti, lancia un’offerta pubblica d’acquisto tramite la controllata Tecnost. L’operazione da 102 mila miliardi di lire (circa 50 miliardi di euro) sulla totalità delle azioni di Telecom Italia è quasi tutta a debito. Tecnost è una società quotata controllata da Olivetti, ad indebitarsi è quindi la Olivetti. Olivetti a sua volta è controllata dalla finanziaria lussemburghese Bell, in cui Roberto Colaninno e il manager bresciano Emilio Gnutti hanno fatto confluire un gruppo di 150 investitori (per la maggior parte schermati da società offshore). Sopra la Bell c’è la Fingruppo di Colaninno e la Hopa di Emilio Gnutti, che in sostanza hanno il controllo di Telecom con appena l’1,5% del capitale. Ad appoggiare la scalata è il governo guidato allora da Massimo D’Alema, che boccia le azioni di difesa studiate da Telecom Italia (la fusione con Deutsche Telekom), non esercita il diritto di veto e impedisce a Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, di valutare opzioni più favorevoli per gli azionisti, e battezza come «capitani coraggiosi» gli imprenditori della cordata.
I capitani lasciano il debito
L’intenzione di Colaninno è quella di fondere Tecnost e Telecom, ma il codice civile italiano vieta la fusione fra la società veicolo che si indebita al fine di acquisire la società madre e ripagare con la cassa generata da quest’ultima. Tenta allora di trasferire il controllo di Tim a Tecnost, un’operazione che avrebbe penalizzato gli azionisti di minoranza e definita dal Financial Times come «una rapina in pieno giorno». Nel 2001 Colaninno e soci vendono tutto il pacchetto portandosi a casa una plusvalenza di 1,5 miliardi di euro, e tutti gli immobili di pregio. A Telecom e alle società collegate restano i 43 miliardi di debito da cui la compagnia non riuscirà più a sollevarsi.
Arriva Tronchetti Provera
A comprare è Pirelli, di cui è amministratore delegato Marco Tronchetti Provera, attraverso la Olimpia, una società che sta sotto Pirelli con dentro la famiglia Benetton e altri investitori italiani. Olimpia è controllata dal Gruppo Partecipazioni Industriali (GPI), con Tronchetti Provera primo azionista. Anche lui compra quasi tutto a debito: con 7,2 miliardi di euro Olimpia si prende il 27% delle azioni Olivetti e il comando di Telecom. I soldi sborsati da Provera di tasca sua equivalgono a meno dell’1% del capitale Telecom. Nel 2003 cambia il diritto societario: il meccanismo del leveraged buyout diventa legittimo e la fusione tra Olivetti e Telecom stavolta si può fare. Questo rende possibile il trasferimento dei ricchi flussi di cassa lungo la catena di controllo, ma scarica definitivamente i debiti sull’azienda di telecomunicazioni. La stagione Pirelli è quella che dura di più. Il Presidente Tronchetti Provera punta allo sviluppo di Internet attraverso la banda larga, tratta una partnership con la News Corp di Murdoch per la produzione di contenuti, avvia accordi con la spagnola Telefonica per allargare il mercato. Per abbattere il debito vende gli immobili che restano, partecipazioni internazionali per 16,4 miliardi di euro e svaluta attività per circa 11,8 miliardi di euro. I dividendi sono molto generosi con i soci. In 6 anni il fatturato resta costante attorno ai 30 miliardi l’anno, l’utile netto a 3 miliardi. Poi acquista Tim, un’operazione rischiosa che fa riesplodere il debito della società: sono di 46,9 miliardi a metà 2005. Nel 2006, secondo governo Prodi, Rovati, consigliere di Palazzo Chigi, fa circolare un piano di scorporo della rete. La politica torna ad occuparsi di Telecom. La situazione della società è impiombata, il titolo in caduta libera.
Da Telco a Telefonica a Vivendi
Nel 2007 Tronchetti vende per 4,1 miliardi di euro tutte le quote di Olimpia a Telco, un consorzio formato da Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali, che scelgono come partner industriale l’operatore spagnolo Telefonica. Telco, con il 22,8% delle azioni ora controlla Telecom, su cui pesano 35,7 miliardi di debito. La collaborazione con Telefonica è travagliata, e a giugno 2014 gli investitori istituzionali gli cedono le loro quote. Telefonica si trova dunque a comandare Telecom con solo il 15% delle azioni. Ma dura poco. Più interessato agli asset sudamericani di Telecom e per nulla al rilancio della compagnia, nel 2015 Telefonica scambia parte delle sue quote con la francese Vivendi di Vincent Bolloré. Tra il 2005 e il 2016, tutti i processi di montaggio, smontaggio e rimontaggio della società arricchiscono schiere di consulenti: il costo per l’azienda è di 4,75 miliardi.
Cambiano 4 ad in sei anni e spunta il fondo Usa
Nei sei anni che seguono Vivendi diventa il primo azionista con il 23,75%, e si alternano 4 amministratori delegati: Marco Patuano, Flavio Cattaneo, Amos Genish, Luigi Gubitosi. In buonuscite Telecom Italia sborsa 33 milioni, di cui 25 a Flavio Cattaneo per un solo anno di incarico. Rientra lo Stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti, che diventa il secondo azionista con il 9,81%. CDP sarebbe in conflitto d’interesse perché ha anche partecipazioni in Open Fiber, concorrente di Telecom sullo sviluppo della rete in fibra. A fine 2020 il fatturato scende a 15,8 miliardi, gli utili si attestano a 1,3 miliardi di euro, il debito resta fermo a 23,3 miliardi. A ottobre 2021 il titolo precipita al minimo storico: 0,28 euro. A fine novembre il fondo americano KKR invia una lettera a Tim nella quale manifesta l’interesse all’acquisto per 0,5 euro ad azione. La lettera viene diffusa, e in Borsa il titolo schizza, ma l’offerta nella quale si indica in modo giuridicamente vincolante un prezzo, e da dove arrivano le risorse per l’acquisto, non è stata depositata alla Consob, come prevede il testo unico della finanza. Però l’Autorità di vigilanza non mette KKR alle corde. È legittimo pensare che qualcuno abbia fatto insider trading.
Una preda facile
Lanciata come «la madre di tutte le privatizzazioni», la società di telefonia non solo non è mai riuscita ad affrancarsi dal potere politico che spesso ne ha determinato le sorti senza tutelare l’interesse pubblico, ma sulla sua strada ha trovato imprenditori rapaci che l’hanno uccisa per fare soldi. Caricata di debiti non è più riuscita ad investire nella modernizzazione della rete, infatti abbiamo ancora 2,8 milioni di abitazioni senza connessione. Nessuno Stato permette che venga compiuto un simile scempio su un asset così strategico! Ora la partita sulla facile preda è aperta. Venerdì scorso è stato nominato il nuovo amministratore delegato Pietro Labriola, un manager che conosce molto bene l’azienda. Resta da vedere quali saranno le intenzioni dei soci e della politica.