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 2022  gennaio 24 Lunedì calendario

Manconi presidente, per non prendere sul serio il Quirinale

Non ci arrendiamo così facilmente, noialtri che dal Quirinale vogliamo l’intrattenimento. Noialtri che per due anni, ogni volta che si nominavano Veltroni e Franceschini, sentivamo qualche saperlalunghista dire «Eh ma vuole andare al Quirinale», e ora nessuno dei due viene citato nelle liste di nomi potenziali, e – se fare i nomi serve solo a bruciarli – vuoi vedere che era vero, vuoi vedere che per il Quirinale ci tocca uno spareggio tra le videocassette di “Ultimo tango” e la biblioteca dell’inedito?
Sarebbe molto novecentesca, come scelta, e perciò avrebbe il mio favore (non ho ancora buttato il lettore vhs, io). Ma si può puntare ancora sull’intrattenimento novecentesco, in un Paese che – in teoria – non è più quello riassunto l’altro giorno da Gianfranco Rotondi? (Cito a memoria: abbiamo reso l’Italia la settima potenza industriale dandovi le false pensioni a sud e l’evasione fiscale a nord). Forse no, e infatti Rotondi ha perso: Silvio si è ritirato, e con lui le nostre speranze di vedere un rifacimento del Caligola di Gore Vidal.
Non ci avete dato Silvio? E allora faremo come quando, da piccoli, dicevamo d’avere tanto da studiare per essere lasciati a casa e poi, appena i genitori partivano per la montagna, organizzavamo festini a base di vodka alla pesca e malattie veneree.
Il nostro cavallo di Troia rispettabile, la nostra copertura culturale, il modo in cui prenderemo il palazzo d’inverno nella città in cui l’inverno non c’è (ci sono solo tramonti sul Tevere e mucchi di monnezza, parimenti instagrammabili), insomma, la nostra gloriosa estate (di York, direi se avessi studiato), lui, egli, la chiave per un Quirinale ludico ha un solo nome: Luigi Manconi.
Sì, l’intellettuale, il garantista, il tutto quello che vi pare, ma soprattutto: il marito di Bianca Berlinguer.
Tanto per cominciare, non lo è ancora. I due hanno pianificato un matrimonio in primavera. E ora ditemi: c’è qualcosa che possa risollevare l’editoria più delle nozze al Quirinale? I rotocalchi ci farebbero almeno quattro numeri: mi piace pensare che, se Carlo Verdelli ha accettato di dirigere Oggi, sia perché con Bianca e Luigi si trova metà delle pagine già fatte per un mese.
Poi, Mauro Corona segretario generale. O forse addirittura portavoce. Altro che la pacata precisazione arrivata dal portavoce di Mattarella a un polemista del Twitter su quali alberi diano le banane, altro che basso profilo, altro che comunicazione istituzionale. Mauro Corona che le dà della gallina e Bianca che deve fermare il Parlamento che vuole accusarlo d’alto tradimento.
Bianca continuerebbe la sua trasmissione, naturalmente: sul timore del conflitto d’interessi prevarrebbe la determinazione a non sembrare un’istituzione arretrata d’un Paese novecentesco in cui una donna debba metter da parte la propria carriera per favorire quella del marito. E quindi sarebbe alla sua trasmissione che il Di Maio del caso (sempre lui o nel casting ideale questa volta tocca a un altro?) telefonerebbe in diretta per chiedere la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica.
Che questa volta non sarebbe – come accadde quando Di Maio telefonò a Fabio Fazio per chiedere l’impeachment di Mattarella e l’Italia si precipitò a guglare “impeachment” senz’avere idea di come si scrivesse – solo il presidente, solo una distante figura istituzionale, solo un’astrazione: sarebbe il marito della conduttrice.
Immaginate Bianca che inizia a urlare (quanto urla di solito? O di più? Questi dettagli poi li sistemano gli autori televisivi, dovranno pur guadagnarsi la pagnotta) in difesa del coniuge: roba da far impallidire Sandra Milo e Luca Barbareschi, se siete nostalgici della tv del Novecento; Tina Cipollari e Gianni Sperti, se siete contemporanei.
E il ricevimento del 2 giugno, cosa può essere il ricevimento del 2 giugno nei giardini del Quirinale, col presidente cieco e la first lady che dovrebbe suggerirgli con discrezione chi si stia avvicinando per salutarlo ma ha un timbro di voce che in confronto Vittorio Sgarbi è un bibliotecario.
E poi, l’unica cosa cui serva la Presidenza della Repubblica. Non il dichiarare guerra (ma a chi? E poi: con l’esercito impegnato a vaccinare vecchiette? Orsù, non scherziamo). Non il presiedere il Consiglio superiore della magistratura (non ho niente contro il garantismo, ho tanti amici garantisti: ogni volta che si mettono a parlare del loro tema preferito, tento di tagliarmi le vene con le bacchette da sushi come diversivo dalla noia). Non il concedere la grazia (e a chi? Forse a Fabrizio Corona, se poi dà un’esclusiva a Bianca; ma poi finisce che la insulta, e Bianca si lascia insultare da un solo Corona, e non è Fabrizio).
C’è una sola cosa cui serva il presidente della Repubblica italiana, ed è il discorso di fine anno. Avete presente “Hollywood Party”? Non il programma radiofonico: il film. Con quel gusto di Blake Edwards per le controscene. Un disgraziato in primo piano convinto d’avere diritto a tutta l’attenzione, e qualcosa di disastroso che accade sullo sfondo e monopolizza lo sguardo della platea.
E adesso la festa pensatela – mi permetto quest’offensivissimo umorismo novecentesco solo perché Manconi è un uomo spiritoso e sarà il primo a ridere di quest’articolo, ma spero che non vorrà ridere il 31 dicembre: è fondamentale che chi è in primo piano resti serissimo, perché la controscena funzioni – con in primo piano un presidente cieco che tiene il suo istituzionalissimo discorso alla nazione, e sullo sfondo gli ospiti di “Cartabianca” che s’azzuffano.
Un giornalista vaccinaro che dice a un ospite antivaccinaro che è un cialtrone. Un ex consigliere Rai che dice a un ex inviato Rai che truffava sulle note spese.
Sono decenni che, nelle interviste in cui vogliono sembrare intelligenti, le belle donne dicono di volere un uomo che le faccia ridere. E noi, come Paese, non abbiamo forse diritto a un discorso di fine anno che ci faccia ridere?
La Sardegna, al Quirinale, non ha mai deluso. Fate organizzare la produzione del discorso di fine anno a Bianca Berlinguer: non farà rimpiangere quella volta che Cossiga il suo lo fece durare tre minuti e trentun secondi. Era trent’anni fa. «Di tradizione pur sempre si tratta, e non di legge imperativa», premise, prima di dirci che gli facevamo schifo e non aveva intenzione di dirci niente (sto parafrasando, ma neanche poi tanto). Mica è legge imperativa, che il Quirinale vada preso sul serio. Se eravate vivi all’inizio degli anni Novanta, già lo sapete