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 2022  gennaio 22 Sabato calendario

Incontro tra Patrick Zaki e Liliana Segre


«Oggi non è un giorno come gli altri, non lo dimenticherò mai. È una grande emozione parlare con lei, senatrice, una persona che mi ha così tanto ispirato». «Sono io a essere felice, perché ti considero uno dei miei nipoti». Patrick Zaki, collegato dal Cairo, e Liliana Segre, da Milano, si incontrano e conversano davanti ai loro schermi via Zoom. Davvero come una nonna e un nipote. Accanto a lui c’è anche l’inseparabile cagnolina Julie che gli è saltata subito in braccio il giorno della scarcerazione, lo scorso 8 dicembre. Già in quell’occasione Zaki – lo studente egiziano iscritto a un master all’Università di Bologna che ha trascorso 22 mesi in cella, oggi fuori di prigione ma ancora sotto processo – aveva espresso il desiderio di incontrare Liliana Segre, senatrice a vita, superstite di Auschwitz, che per lui s’è spesa nel periodo della detenzione.
La conversazione, organizzata da «la Lettura», avviene mentre si sta per celebrare il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, istituito per non dimenticare la Shoah. Nel dialogo Zaki e Segre ricordano chi allora non tornò e concordano che preservare la Memoria e studiare la storia siano un modo per rendere onore alle vittime innocenti e fare in modo che gli orrori del passato non si ripetano. Nella consapevolezza che la Shoah non ha paragoni e che non intendono confrontare il loro vissuto, l’esperienza che hanno subìto li rende però nel parlarsi ancora più vicini, umanamente e idealmente stretti. In uno scambio che, come la senatrice ha sempre esortato in oltre trent’anni di testimonianza, viene a ricordarci che in alcun luogo e in alcun tempo bisogna mai essere indifferenti né voltarsi dall’altra parte.
Patrick Zaki, ora siete qui, collegati via internet. Alla senatrice Segre può parlare direttamente.
PATRICK ZAKI — È un immenso onore, sono molto grato di conoscere una persona così straordinaria. Già in prigione, quando ero venuto a sapere che Liliana Segre si era interessata a me, che aveva pronunciato il mio nome, questo mi aveva dato molto coraggio. La senatrice a vita è un membro del Parlamento e un esempio nella difesa dei diritti umani, che non è un lavoro ma un modo di pensare e di essere nel mondo. Un esempio non solo in Italia, ma a livello internazionale.
LILIANA SEGRE — Dal primo momento che sono venuta a conoscenza della vicenda di Patrick, che ho visto il suo viso, la sua gioventù, la sua purezza, mi sono sentita idealmente sua nonna. È stato più forte di me, non il frutto di un ragionamento ma di un sentimento, di un istinto che ho provato. E poi questi mesi di attesa, sempre sperando che tornasse l’uomo libero che era prima, mi hanno fatto ricordare in modo violento – anche se ovviamente ci penso già spesso – che cosa voglia dire essere dentro una cella. Certo, ci sono differenze, non si possono fare paragoni, ma io conosco l’ansia di quando quella porta si apre e tu speri che ti liberino. Ma al tempo stesso sai che potrebbe accadere qualcosa di terribile.
Nelle sue testimonianze Liliana Segre ha parlato di una «forza dell’impossibile» per resistere nell’inferno di Auschwitz, dove molto spesso vivere o morire dipendeva dal caso. Da dove arriva la forza per non arrendersi nei momenti di massima ingiustizia e difficoltà?
LILIANA SEGRE — Io avevo 13 anni e a quell’età c’è una forza verso la vita. È qualcosa che non nasce dalla ragione, dalla comprensione o da una decisione. È appunto la spinta che sta all’origine dell’esistenza stessa, come è logico che sia se hai così pochi anni. La provi, anche se tutto ciò che ti sta intorno ti dice che devi morire. La provi, e ti fa andare avanti. Allora per me fu la capacità di guardare il cielo anziché la terra, di pensare ai ricordi meravigliosi dell’infanzia, a quello che avevo avuto fuori da lì: l’amore familiare, una gita in campagna quando i fiori si aprivano, la felicità per un nuovo regalino. Lo ripeto, è la forza della vita, talmente intensa che vince, che deve vincere. Così l’ho vista in tante persone nella mia lunga esistenza; e l’ho vista in Patrick.
PATRICK ZAKI — Mi riconosco in questa pulsione di cui parla la senatrice. Chiunque entri in una cella perde qualcosa che non ritroverà mai, ma voglio sottolineare che la mia esperienza non può essere assolutamente paragonata a quella di Liliana Segre. Era una bambina, io già un uomo. E non soltanto. Lei è stata in prigione, poi deportata ad Auschwitz-Birkenau, dove ha perso il papà e i nonni, infine trasferita in altri lager con la terribile «marcia della morte». E ogni spostamento ha portato una nuova violenza. Io durante la detenzione ho potuto ricevere le visite dei miei familiari, il sostegno dei colleghi. I Paesi, le istituzioni internazionali, si sono mobilitati per me. Mi hanno aiutato anche l’avere studiato la storia e la mia esperienza nel campo dei diritti umani, che mi ha permesso di rielaborare quello che mi stava accadendo.
Fiaccolate, marce, mostre, libri, iniziative del Parlamento italiano e di quello europeo, dell’Università di Bologna, delle organizzazioni per i diritti umani... C’è stata una grande mobilitazione, sia della società civile sia della politica, per chiedere la liberazione di Patrick Zaki. Tanto più si è spesa la senatrice Segre, che a 13 anni si scontrò contro il muro dell’indifferenza. E che proprio questa parola ha voluto fosse scolpita all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, sorto in quello stesso luogo della Stazione Centrale da cui partirono i treni per i lager e da dove fu deportata.
LILIANA SEGRE — Nel mio appoggio alla richiesta di liberazione di Zaki non c’è stata tanto una comparazione con quello che avevo passato io, ma un desiderio di giustizia. Accompagnato da quella vicinanza che io – nonna di tre nipoti e di tanti altri ragazzi dei quali sento di esserlo – provo nei confronti dei giovani. È vero però che l’ho voluta fortemente quella scritta, vicina al binario oscuro da cui partii per Auschwitz con mio papà Alberto, che non tornò. L’ho voluta perché è l’indifferenza che consente la violenza. Non solo quella volta, ma tutte le volte che nella storia è accaduta una violenza, quest’ultima si è verificata perché intorno a chi ne era responsabile c’erano gli indifferenti. Una disgrazia per gli altri ma anche per sé stessi, perché non sono sensibili alle gioie e ai dolori di chi li circonda. Io gli indifferenti li ho conosciuti presto nella mia vita, e li vedo ancora oggi.
PATRICK ZAKI — Il sostegno che ho ricevuto mi ha permesso di tenere accesa la luce della speranza, di sentire che una soluzione era possibile. La più grande paura quando sei in cella è quella di essere dimenticato. A parte la tua famiglia in senso stretto, infatti, può capitare che con il tempo anche le persone più vicine debbano ritrovare spazio per sé stesse, andare al lavoro, affrontare la loro vita, così che non possano più concentrarsi su di te.
Lo scorso 19 novembre a Patrick Zaki è stato assegnato il Premio Maria Grazia Cutuli, in onore dell’inviata del «Corriere della Sera» uccisa in Afghanistan nel 2011. La redazione e la Fondazione Corriere attribuiscono il riconoscimento a giornalisti e scrittori di cui vogliono segnalare il lavoro. Il premio di Zaki è stato ritirato dal compagno dell’Università di Bologna Rafael Garrido, con un messaggio della sorella Marise.
PATRICK ZAKI — È stato un grandissimo onore, mi ha davvero commosso. Maria Grazia Cutuli appartiene a quella categoria di persone che hanno dedicato la loro vita alla ricerca della verità. È grazie a giornalisti come lei che sappiamo cosa succede realmente in Paesi come l’Afghanistan. Sono loro che contribuiscono a farci conoscere come stanno i fatti a proposito di avvenimenti tragici e raccapriccianti. Penso per esempio alla Siria. Ecco perché ancora una volta dico grazie.
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria, istituito dall’Italia nel 2000 e poi dal 2005 a livello internazionale per ricordare le vittime della Shoah. Quanto è importante celebrarlo? E come possono le nuove generazioni diventare messaggere della Memoria?
LILIANA SEGRE — Ogni anno, ogni giorno che passa e ci allontaniamo da quei tragici fatti, diventa più facile per i negazionisti dire che quello che è stato non è mai accaduto. Ovviamente per me il Giorno della Memoria è ogni giorno, ma la paura più grande è che la Memoria venga tradita, negata e poi dimenticata. Come la maggior parte dei «Giorni della Memoria» dei secoli passati, che avrebbero meritato di non essere solo una riga in un libro. Ci sarebbe stato bisogno che fossero raccontati e spiegati i comportamenti, sia positivi sia negativi, delle persone che sono state vittime e di quelle che sono state violente, i persecutori. Io nei miei incontri con gli studenti, in tutti questi anni in cui ho testimoniato nelle scuole e nelle università, ho sempre insistito su un punto: quanto sia indispensabile lo studio e l’approfondimento della storia, delle sue luci e delle sue ombre. È un grande modo per chiedere scusa alle vittime innocenti.
PATRICK ZAKI — Prima di tutto voglio dire che mi dispiace tanto per l’esperienza terribile che ha vissuto Liliana Segre, ci tengo a esprimerle tutta la mia vicinanza. È vero, studiare la storia serve a ottenere la verità. Anche nel caso della Shoah è stato necessario ricercare e approfondire per capire gli aspetti di quella disumana violenza. Lo studio serve anche a mantenere la Memoria e a fare in modo che il passato non si ripeta.
Patrick Zaki ha raccontato di avere letto in carcere Elena Ferrante, Fëdor Dostoevskij, José Saramago. Per Liliana Segre nel lager non ci furono libri, ma ha detto che dopo la liberazione la salvarono l’amore e lo studio.
LILIANA SEGRE — No, non c’erano volumi da leggere nel campo di sterminio. Nemmeno un foglio di carta su cui scrivere il mio nome. Lì si era ridotti a numeri, a Stücke, «pezzi». Ma quando sono tornata ho voluto ricominciare a studiare e rimettermi in pari. Avevo quindici anni, e fu un momento molto importante: mentre la disperazione mi torceva lo stomaco, passavo tutto il giorno e parte della sera sui libri. Feci da privatista cinque anni in uno, mi presentai alla licenza ginnasiale e alla fine frequentai il liceo classico con solo un anno di ritardo rispetto alle mie compagne di prima della tragedia. Fu fondamentale riprendere a studiare: mi aiutò soprattutto a rendermi conto che non tutto era perduto, che forse avrei potuto ricominciare, anche se da zero. Il corollario, dopo qualche tempo, fu avere incontrato Alfredo, l’uomo della mia vita, che sarebbe diventato mio marito. Si aprì così un nuovo capitolo della mia esistenza in cui l’amore è stato vincente, ancora una volta, sull’odio.
PATRICK ZAKI — Io ho avuto la fortuna di potere leggere in cella. Con i compagni ci scambiavamo qualche volume. I libri sono importanti ovunque ma in carcere ti consentono di impegnare un tempo che è molto lungo. E poi sono salvezza perché ti permettono in un certo senso di uscire: immagini le esperienze del protagonista, ti metti nei suoi panni, vivi quello che sta facendo lui sulla pagina. Anche i dettagli minimi, che normalmente ti parrebbero insignificanti o ti annoierebbero, in alcuni momenti diventano entusiasmanti. E anche i personaggi che magari avresti ignorato si trasformano in amici che ti fanno sentire meno solo.
A lottare con Patrick Zaki ci sono state tante donne coraggiose: tra loro sua madre, sua sorella, la fidanzata, l’avvocata, la professoressa mentore dell’Università di Bologna. Lui stesso frequentava nell’ateneo italiano un master europeo in studi di genere e delle donne.
PATRICK ZAKI — Ho avuto in sorte di incontrare numerose donne straordinarie nella mia vita. Donne che si impegnano, disposte ad andare oltre le difficoltà. Ovviamente non voglio generalizzare, ma almeno la mia personale statistica dice questo. Dalla famiglia, passando per l’università, fino al mio team legale, alle giornaliste che seguono il mio caso: sono circondato da donne, e vedo in loro una grandissima forza. Quindi voglio essere al fianco di tutte le donne.
L’11 gennaio è scomparso David Sassoli. Il presidente del Parlamento europeo si era speso per Patrick Zaki. E sempre lui invitò Liliana Segre a parlare a Bruxelles il 29 gennaio 2020, a ridosso proprio del Giorno della Memoria. Come lo ricordate?
LILIANA SEGRE — Conoscevo già David Sassoli da alcuni anni e lo rividi in occasione del suo invito a parlare al Parlamento europeo. Fu un giorno importante, in cui osservai sventolare insieme le bandiere di Paesi che un tempo si erano combattuti. Ricordo l’accoglienza affettuosa del presidente, le lacrime che gli rigavano il viso mentre mi ascoltava tenere emozionata il mio discorso... Sassoli è stato un rappresentante dell’Italia migliore, un patriota europeo.
PATRICK ZAKI — È stato un uomo straordinario, ci tengo tantissimo a ricordarlo e ho provato un immenso dolore nel sapere che non c’era più. David Sassoli era un difensore dei diritti umani e di tutti i prigionieri di coscienza. Dopo il mio rilascio mi ha mandato due messaggi e poi ci siamo parlati mentre era ricoverato in ospedale. Ecco, vorrei inviare un forte abbraccio ai suoi figli e alla moglie, e promettere che terrò sempre vivo il suo ricordo.