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 2022  gennaio 22 Sabato calendario

L’avventura politica di Manfredi di Svevia

«Biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso». Nel terzo canto del Purgatorio, Dante fornisce un ritratto efficace – tra i più celebri – di Manfredi di Svevia, caduto nella battaglia di Benevento il 26 febbraio del 1266, nel corso d’uno scontro con le armate di Carlo d’Angiò. Alto, dai lunghi capelli ramati, elegante nei modi e nel portamento, il giovane principe è effigiato con le ferite della battaglia, impresse sull’anima. Egli è colpevole. Il Poeta ne è conscio. Benché la Misericordia divina gli abbia concesso di salvarsi, nonostante la scomunica inflittagli in vita, giacché pentitosi in punto di morte: «Orribil furon li peccati miei / ma la bontà infinita ha sí gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei». «Insincera concessione dantesca alla propaganda guelfa», tesa a sminuirne la figura, o «eccessivo credito alla propaganda sveva», volta, al contrario, a tratteggiare un sovrano dotto e brillante, vittima dell’arroganza papale?
È questa domanda ad aprire il Manfredi di Svevia di Paolo Grillo, professore ordinario di Storia medievale presso l’Università degli Studi di Milano La Statale, edito per i tipi della Salerno Editrice nella collana di biografie diretta da Andrea Giardina. Figlio illegittimo di Federico II e di Bianca Lancia, sposata in tarda età, «erede dell’imperatore nemico del papa», «prigioniero del suo mito» – come recita la copertina -, Manfredi aspirava al regno di Sicilia, la cui corona spettava al fratellastro Corrado; quindi, alla sua morte, occorsa nel 1254, al piccolo Corradino, opportunamente lasciato in Germania per timore dello zio. Approfittando dell’assenza di questi, non ancora trentenne, il principe assunse la reggenza, compiendo un plateale atto di sottomissione al papa, Innocenzo IV – da cui aveva ricevuto una prima scomunica -, accolto a cavallo a Ceprano, mentre egli stesso, appiedato, ne reggeva le redini. Il 10 agosto del 1258, tuttavia, approfittando della debolezza del successore, Alessandro IV, si fece incoronare re di Sicilia nella cattedrale di Palermo dal vescovo di Agrigento: primo passo d’un vasto progetto d’assoggettamento della penisola intera sotto l’autorità sveva, preludio della corona imperiale. Il fronte ghibellino gli si strinse attorno. Egli lo sostenne inviando un contingente tedesco a Montaperti, nel 1260. Stipulò, inoltre, alleanze di peso, legandosi alla casa aragonese mediante il matrimonio tra la figlia Costanza e Pietro, erede di Giacomo I. Un’ascesa inarrestabile, la sua, cui bisognava mettere freno. Nel 1261, accusato d’usurpazione, Manfredi fu nuovamente scomunicato da Urbano IV. Contro di lui, anzi, fu bandita una crociata. Il sovrano rispose tentando d’assaltare Roma, senza successo. La soluzione giunse dall’esterno: da quel Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX, re di Francia, i cui eserciti sarebbero riusciti a sbaragliare ripetutamente il fronte ghibellino sino all’epilogo beneventano.
In sedici capitoli di piacevolissima lettura, Grillo ricostruisce l’avventura politica dello Svevo, facendo uso di tutte le fonti a disposizione. Un quadro, a dir poco, polifonico, dovuto tanto alla pressante propaganda papale, volta a tratteggiare il sovrano alla stregua d’un pericoloso nemico della Chiesa, quanto all’altrettanto pressante propaganda sveva, tesa a promuoverne l’immagine pubblica mediante ogni mezzo: opere letterarie, componimenti poetici, monete, lapidi, effigi, affreschi e così via. È il caso, ad esempio, del trovatore genovese Percivalle Doria, da lui nominato vicario generale per le Marche, il ducato di Spoleto e la Romagna, autore d’un sirventese, databile fra il 1258 e il 1259, in cui egli è dipinto nei panni d’un abile guerriero: «Ma il nostro splendido re Manfredi, / che è luce di puro valore, / splende ancora / e sta compiendo atti esemplari: / non ha mai smesso di fare doni / né si è spaventato davanti alla guerra; / anzi, ha vinto e schiacciato i suoi nemici / ed esaltato i suoi amici».
Evitando ogni logica combinatoria, Grillo contestualizza un vasto numero di fonti, tratteggiando i mutevoli contorni d’una figura complessa. Abbiamo, così, un Manfredi ghibellino e usurpatore; un Manfredi amministratore; un Manfredi stratega; un Manfredi devoto; un Manfredi uomo di cultura e mecenate. Senza tralasciare il Manfredi eroe risorgimentale – penso, ad esempio, alla tragedia Manfredi Re delle due Sicilie del genovese Carlo Pratolongo, del 1838 -, riletto come colui che avrebbe avuto il merito di proporre, per primo, l’unificazione del suolo italiano, in contrapposizione alla Chiesa. Un Manfredi, insomma, in perpetuo rinnovamento. È questa, dunque, la chiave di lettura scelta dallo studioso: quella d’un «mito» – se si vuole, d’un «mito politico» – capace d’accompagnare per secoli la storia d’Italia. Il risultato è la magistrale restituzione d’una figura densa di contraddizioni e proprio per questo affascinante. —