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 2021  ottobre 06 Mercoledì calendario

Su "Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza" di Raoul Pupo (Laterza)

TRIESTE. Un manuale ragionato per l’uso corretto della storia, è questo “Adriatico Amarissimo”, sottotitolo “Una lunga storia di violenza” (Laterza Editori, pagg. 298 pagine, euro 20) l’ultimo libro dello storico triestino Raoul Pupo - da oggi nelle librerie - che guida i lettori attraverso le tempeste che hanno funestato la costa orientale del nostro mare dal tardo periodo asburgico alla seconda guerra mondiale, al suo lunghissimo dopoguerra. Anni in cui sono avvenuti cambiamenti sconvolgenti, sui quali i politici hanno speculato, utilizzando narrazioni sedimentate nel tempo e divenute “storia ufficiale”.

Ma la storia devono farla gli storici, con scienza e coscienza, avendo il coraggio di denunciare le manipolazioni, non nascondendo dubbi, perplessità, falsificazioni. Come fa Pupo riprendendo i discorsi avviati nei libri precedenti. L’autore divide questi sette decenni in tre periodi: la stagione delle fiamme, la stagione delle stragi e la stagione del lungo dopoguerra.

La prima è caratterizzata dall’irredentismo e dai conflitti sociali, che – rileva lo storico - sono più estesi e preoccupanti. Pupo mette a confronto due fatti: l’attentato all’arciduca Carlo e lo sciopero dei fuochisti del Lloyd. Il primo sconvolge Trieste nel 1882 quando viene inaugurata l’Esposizione che celebra i 500 anni dall’Atto di dedizione all’Austria. L’attentato provoca un morto, un ragazzo di 16 anni, Angelo Fortis. Non si saprà mai chi ha gettato la bomba all’Orsini in Corso, ma verrà accusato Oberdan che negherà sempre. Le reazioni dell’opinione pubblica, anche in Italia, sono fortemente negative il che indurrà gli irredentisti a cambiare tattica: niente lotta armata, come i movimenti analoghi in Irlanda o in Bulgaria. Continueranno le manifestazioni di piazza, sia degli italiani sia degli sloveni; ma senza bombe.

Vent’anni dopo si terrà lo sciopero dei fuochisti del Lloyd, apice di un disagio molto pesante avvertito dai lavoratori. La protesta viene soffocata nel sangue: 14 morti. “Lo straordinario spiegamento di forze e la durezza della repressione – spiega Raoul Pupo – indicano come le autorità temano la protesta sociale e la capacità di mobilitazione delle masse proletarie, ritenute aperte anche a suggestioni anarchiche, assai di più che non le provocazioni irredentiste”, contestando così l’interpretazione dell’eccidio come un conflitto nazionale, pubblicizzata dal Municipio in mano ai liberal-nazionali che rimarrà nella vulgata irredentista. Stessa protesta a Fiume, quattro anni dopo, di proporzioni minori. Qui sono i socialisti ad arruolare tra i loro martiri, la vittima Piero Kobek. Sono tanti i trabocchetti, Pupo li chiama “inciampi” nei quali si può incorrere.

E veniamo alle stragi e alle violenze, perpetrate nei due conflitti, ma anche in tempo di pace. L’alto Adriatico è un laboratorio in cui si sperimentano tutti i totalitarismi del secolo breve: fascismo, nazismo, comunismo. E il lavoro dello storico si fa ancor più difficile, perché si rifiuta di offrire soluzioni facili in quest’epoca di semplificazioni e di sproloqui sui social, semmai semina onesti dubbi.

Elenchiamo a volo d’uccello i fatti che Pupo invece ben approfondisce: Fiume “atto di guerra civile, non un gesto garibaldino”. Si voleva rovesciare il governo, ma al contrario Nitti si rafforza e l’avventura si spegne nel “Natale di sangue” del 1920, anche perché il Vate viene tradito da Mussolini, che si farà la sua marcia su Roma utilizzando a piene mani l’apparato propagandistico di D’Annunzio, insuperabile creatore di slogan fortunati come quello della “vittoria mutilata”.

Sempre nel ’20 l’incendio del Balkan, dove manca la solidarietà dei socialisti agli sloveni, e su cui ci sono ancora molte lacune. Però un fatto è chiaro: è il primo atto del terrore fascista che “si scatenerà nella Venezia Giulia dove vengono incendiati almeno 134 edifici, tra cui 100 circoli di cultura, 2 Case del popolo, 21 Camere del lavoro, 3 cooperative”. Il fascismo di frontiera anticipa il vero volto della dittatura e le autorità “a opporsi non ci pensino proprio”. Il famigerato Giunta si vendica della batosta subita a Fiume.

Scoppia la Grande Guerra. L’Italia per un anno si mantiene neutrale poi entra nel conflitto. A Trieste la reazione è rabbiosa: “Il Piccolo” viene incendiato, così il Caffè San Marco e ritrovi e negozi di italiani. È solo la marmaglia aizzata dalla polizia austriaca o è la reazione multietnica alla fame e alle restrizioni che il conflitto comporta? Altro capitolo da lumeggiare meglio.

La guerra finisce. Arrivano gli italiani e comincia immediata la bonifica, a cominciare da vie e piazze. Lasciano subito la città tedeschi e boemi, in seguito gli sloveni per un esodo di cui non si conoscono le cifre (centomila tra le due guerre?). Nasce la prima resistenza al fascismo con la coda degli attentati, dei processi, della repressione. Nel ’38 le famigerate leggi razziali che, prima discriminano e poi preparano l’estinzione della comunità ebraica, “che – sottolinea Pupo - aveva rappresentato uno dei principali motori dapprima della prosperità della città adriatica fra XVIII e XIX secolo e poi dell’irredentismo giuliano”.

Secondo conflitto: l’Italia occupa la Slovenia, crea la Provincia di Lubiana dove garantisce i diritti alla popolazione, mentre li nega agli sloveni compresi nei confini di Rapallo, che vengono spinti all’”italianizzazione” a partire dai cognomi, fenomeno che riguarda moltissime famiglie triestine.

Quando finiscono le stragi, eccoci al lungo dopoguerra caratterizzato dalle foibe e dall’esodo. Eventi, entrambi, da studiare ancora con attenzione e definire con grande cautela. Di un fatto però Raoul Pupo è certo: non fu genocidio degli italiani, questo senza nulla togliere agli aspetti drammatici della vicenda che Pupo descrive minuziosamente. La ragione è una: l’ideologia, la realizzazione del comunismo. Lo conferma il fatto che le vittime italiane della repressione sono una piccola parte rispetto agli almeno 60-70 mila morti concentrati nelle prime settimane di maggio del ’45 nella Federativa. Lo studio di questa tragedia – ammonisce Pupo - spiega che la storia non deve essere etnocentrica ma plurale.