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 2022  gennaio 21 Venerdì calendario

Intervista a Denzel Washington


Per sua maestà Denzel Washington recitare è come respirare. Solida formazione teatrale e vecchia scuola cinematografica, sensualità e carisma, impegno civile e popolarità lo rendono figura di riferimento – come per lui lo è stato il compianto Sidney Poitier – per la nuova generazione di attori afroamericani, ansiosi di intestarselo come mentore: il figlio John David, ovviamente, ma anche lo scomparso Chadwick Boseman, Michael B. Jordan, Corey Hawkins.
Entra perfettamente, il divo, nel bianco e nero espressionista di Macbeth firmato Joel Coen (disponibile su Apple Tv+), incarnando lo scozzese signore di Cawdor distrutto dalla brama di potere, affiancato da Lady Frances McDormand.
A 67 anni e due Oscar, Denzel Hayes Washington Jr. ha il sorriso noncurante di chi si sente allenatore più che campione: nella scuderia di famiglia quattro figli, tutti nel business, e la regia lo appassiona sempre di più. Si sottopone con rassegnata grazia all’intervista in collegamento da Los Angeles.
Perché il Macbeth?
«Per Shakespeare, Joel e Frances».
Il retaggio teatrale è stato utile.
«Fondamentale. Con Joel abbiamo fatto molte prove e Frances McDormand è un’attrice magnifica. Sul set mi sono sentito a teatro, Joel e il designer hanno creato un mondo a parte, spoglio, niente mobili veri, o imbottiti di oro e viola. Nessun posto in cui nasconderci, eravamo nudi».
Il suo primo ruolo scespiriano è stato l’Otello, a vent’anni.
«Era il ‘77, m’innamorai del Bardo.
Ma ero giovane, non avevo idea di cosa stessi facendo. Così sono andato alla biblioteca del Lincoln Center, ho ascoltato l’Otello di Laurence Olivier sul vinile e l’ho semplicemente imitato: accento, enfasi. Dopo 46 anni tutto questo non mi spaventa, ho fatto Molto rumore per nulla, Bruto a Broadway, Riccardo III nel parco...».
Cosa racconta oggi Macbeth?
«Come 400 anni fa, la lotta per il potere e il suo abuso. Leggo un capitolo al giorno della Bibbia, la tragedia è attuale perché lo è il male nelle persone. È successo ai tempi dell’Antico Testamento, di Shakespeare, succede oggi. Avidità, fame di potere, invidia, appartengono alla natura umana».
La religione aiuta la riflessione?
«Mi piace parlare di spiritualità, il termine religione evoca subito credo contrapposti. La Bibbia è ispirazione quotidiana, specie ora che dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri».
C’è stato un momento in nella carriera cui l’ambizione ha posseduto la sua anima?
«Sì, ma non lo ammetterei mai.
Siamo allevati, specie negli Stati Uniti, nel mito della vittoria, vogliamo essere i numeri uno. Ma mi è capitato anche di non voler vincere l’Oscar per Malcolm X, mi sarebbe spiaciuto per Al Pacino, dopo otto nomination, toccava a lui».
Cos’è stata per lei la figura di Sidney Poitier e quanto è importante passare il testimone a una nuova generazione di attori afroamericani?
«Sidney è stato il nostro esempio, soprattutto ho avuto l’onore di essergli amico. Per quarant’anni, specie nei momenti brutti, la sua porta è sempre stata aperta per me, per parlare di vita. Il rapporto con la nuova generazione è diverso, ma sento una certa responsabilità, il desiderio di condividere ciò che ho, le mie esperienze».
Con Michael B. Jordan ha girato “A Journal for Jordan”, sul diario che un sergente ucciso in Iraq ha scritto per il figlio.
«Da attore voglio solo continuare con progetti di qualità, da regista sento di avere ancora molto da esplorare».
È un grande ammiratore dello scrittore August Wilson, ha portato due suoi romanzi sullo schermo, c’è qualche risonanza con Shakespeare?
«Qualcuno ha chiamato Wilson lo Shakespeare americano, perciò sì, non c’è una contaminazione ma una certa musicalità, per me sono musica, potrei cantare i ruoli».
Lei è uno dei pilastri di Hollywood, ma i suoi ultimi due film sono usciti su piattaforma.
C’è un futuro per il cinema adulto in sala?
«Con il Covid c’è stata la tempesta perfetta, senza la pandemia il rapporto sale – streaming non sarebbe quello che è. Ma si fanno film di tutti i tipi, basta cercarli, anche sulle piattaforme».
Con il “colorblind casting”, la scelta di non considerare il colore della pelle per i ruoli si sono aperte più possibilità per tutti.
«Io sono in una posizione particolare, ma la vivacità produttiva di questo momento e le piattaforme lo hanno reso più facile, rispetto ai miei inizi».
I suoi quattro figli fanno cinema.
«Sono adulti, intelligenti, professionisti. Ma non so se è successo per causa mia, la fanatica del cinema è mia moglie Pauletta, fin da piccoli guardavano insieme i dvd dell’Academy sui nominati agli Oscar. Malcolm è un regista, Olivia, attrice, ha lavorato con me nel Macbeth, bello averla sul set. Katia ha prodotto molti film, tra cui
Malcolm e Marie di John David. Per lui sognavo la carriera sportiva che non ho potuto avere io. Mam era un ragazzino, ai tempi di Glory gli portai una divisa dal set e lui passò la giornata a recitare tutti i ruoli del film».