Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  gennaio 21 Venerdì calendario

Quel che c’è da sapere su Tonga

 
La cenere grigia che ricopre le case e le coste di Fafaa, Nomuka e Pangai, le palme divelte di Tongatapu, il buco nel cuore dell’isola squarciata dall’esplosione del vulcano Hunga, sono le uniche immagini che sono riuscita a reperire in questi giorni di ossessive ricerche sul web. Perché a Tonga devo un dono. La fotografia dei ragazzini di Foa – conosciuti mentre la attraversavo in bicicletta un pomeriggio di ottobre del 2006 – è sempre stata davanti a me, in tutti questi anni. E adesso mi chiedo che ne è di loro.
Non sapevo – e non so – come raccontare Tonga. Se dico un arcipelago di 170 isole perdute nell’immensità del Pacifico, evoco un paradiso esotico per turisti, e mistifico la realtà. Se dico che è lontana – perché è agli antipodi rispetto all’Italia (e all’Europa) – è un’illusione ottica: nella carte geografiche australi, che rappresentano per noi il mondo alla rovescia, figura ad appena tre ore di aereo da Auckland. Più appropriato dire che è un’eccezione nella storia del Pacifico: l’unico Stato sempre governato da una monarchia locale. “Scoperta” dagli olandesi nel 1616, dimenticata dopo il passaggio di Tasman, visitata da Cook nel 1763, grazie alla precoce conversione del suo re Taufa’ahau, nel 1831, non è mai stata una colonia: non è diventata francese come Tahiti o le Fiji, né americana come Samoa o tedesca come le Marianne. Ha mantenuto la sua indipendenza, anche se fa parte del Commonwealth e guarda all’Inghilterra. Si circola a sinistra, nelle scuole i bambini imparano l’inglese. I tongani emigrano in America e Nuova Zelanda, i rimasti vivono di rimesse, in un tempo dilatato e come sospeso. È proverbiale la loro lentezza. Alcuni coltivano noci di cocco in latifondi di proprietà giapponese, la maggior parte i propri orti e campi intorno a casette di un solo piano. I maiali, i tacchini e le galline che scorrazzano sull’erba finiscono arrostiti nei superbi banchetti della domenica. Molte isole minori sono deserte. I locali le raggiungono in canoa, per pescare molluschi e mai mai. I pochi turisti sono prevalentemente neozelandesi e australiani. Velisti, sub e pacifici osservatori di balene nel gruppo delle Vava’u, surfisti solitari a Tongatapu. Le spiagge bianche sono abitate solo da granchi e paguri, andare al mare è passatempo da bianchi. Le tongane si bagnano vestite come le musulmane, perché la religione conta in una società conservatrice. Il cristianesimo ha sottratto al peccato i loro corpi (i costumi sessuali degli autoctoni rappresentarono una gioia per i marinai e uno shock per gli esploratori del Pacifico, e i missionari si incaricarono di abolire lo scandalo). La chiesa ha requisito la danza – principale espressione artistica locale. Ma le messe sono feste di musica, cori e canti.
Le isole dei quattro gruppi che compongono il regno sono distanti perfino tra loro, l’oceano è infido, gli attracchi incerti e le navi rare – per lo più cargo. Ci si muove volando. Tempo fa, con aerei che sembravano degli Anni ’40 (ma in realtà rifatti su quei modelli per compiacere l’anglofilia del re). Passeggeri e bagagli si pesano alla partenza, insieme. Si paga l’eccesso a chilo. Un sistema pratico per determinare il carico del velivolo. Inoltre necessario per la stazza degli abitanti. Colossali quasi tutti (i tongani più celebri sono un lottatore e il rugbista Malakai Fekitoa: il rugby è lo sport nazionale). Ma molti in sovrappeso per l’abuso di corned beef – carne in scatola venduta negli spacci dei cinesi.
A Tonga i cinesi e gli indiani si trasferiscono per commerciare, gli occidentali per archiviare il passato e inventarsi un’altra vita. Come l’unica vittima identificata, l’inglese Angela madrina dei cani randagi. Ho incontrato italiani che avevano aperto ristoranti e minialberghi – resort di tipo maldiviano non ce n’erano, l’arcipelago difendeva la propria diversità e solo a Fafà se ne trovava uno adatto alle lune di miele; oppure campeggi ecologici con bungalow privi di elettricità, dalle cui fragili pareti filtravano scrosci di pioggia (nelle cartoline c’è sempre il sole, ma ai tropici piove, e molto). Un ex manager neozelandese aveva acquistato per 99 anni a Vava’u un’isola il cui perimetro percorrevi in 15 minuti: nella casa di legno viveva con la moglie, la figlia campionessa di kite-surf e un cane che abbaiava alle balene di passaggio. Un imprenditore divenuto donna si era ritirato in un’isola remota delle Niuas. L’omosessualità è illegale, ma nella cultura tongana sono ben accolti i fakaleiti – maschi che vestono e vivono da donne. Da 28 anni organizzano un concorso di bellezza transgender, Miss Galaxy Pageant. L’ultimo si è tenuto a luglio 2021 e ha incoronato Lavenda Mosay. Ma adesso ricordo soprattutto Hans. Un barbuto cuoco tedesco che per decenni aveva lavorato sulle navi da crociera ed era riuscito a prendere in affitto un pezzo di terra a Foa, nelle Ha’apai. Sognava di andarci a vivere con la moglie. Ma aveva lottato per anni con la burocrazia e la natura – impedimenti, uragani, inefficienze e avversità di ogni tipo. E quando finalmente aveva finito la casa, la moglie era morta. Ma lui si è trasferito lo stesso a Foa. Ha costruito qualche bungalow sulla spiaggia di Houmaleia, assunto ragazzi e ragazze del posto, che stavano per emigrare in America, e ormai era parte del paesaggio, benvoluto come se ci fosse nato. Ho pranzato col re di Tonga nel suo giardino.
Re Taufa’ahau Tupou IV era morto da venti giorni (le isole ancora parate a lutto, con drappi viola), il nuovo re George Tupou V girava le isole con la sua auto nera – un taxi londinese Anni ’50 – per farsi conoscere dai sudditi. I bambini lo aspettavano sul bordo delle strade, con la divisa della scuola e una bandiera in mano. È arrivato nella semplice casa di Hans con una ristretta corte di due uomini e una donna, abbigliati col costume locale (la gonna di foglie). Gli ho detto che era il mio primo re. Lui – con ineffabile humour – ha risposto che non ero la sua prima scrittrice. Aveva studiato a Cambridge e Oxford e all’Accademia militare di Sandhurst. Non rimpiangeva l’Inghilterra. Anche se ereditava un paese quasi privo di risorse, lambito dalla povertà di tutti i tropici (alla periferia della capitale si nascondeva una bidonville), depauperato dall’emigrazione e politicamente inquieto: pochi giorni dopo la mia partenza esplose la rivolta popolare, con manifestazioni inneggianti alla democrazia, degenerate in saccheggi e incendi. Nuku’alofa fu in parte distrutta. Per placare i tumulti fece ricorso a soldati e poliziotti australiani e neozelandesi e arrestò centinaia di oppositori. Solo poco prima della morte revocò lo stato di emergenza.
Del passato glorioso di Tonga restano siti archeologici, ruderi di tombe reali, enigmatiche strutture in pietra corallina. Il resto è mito e leggenda: gli ammutinati del Bounty respinti dai battaglieri abitanti di Tofua, memorie di sopravvissuti a naufragi, racconti sugli indigeni che praticavano il cannibalismo per introiettare il potere dell’avversario sconfitto. Usanze estirpate, come gli dèi Tangaloa e Maui.
Ho conosciuto però uno stregone. Si è presentato così lui stesso – forse per impressionare la donna bianca. Stavo camminando sulla scogliera lungo la costa sud, dove onde alte come la muraglia cinese si insinuano nelle fenditure della roccia ( blowholes) ed esplodono in geyser di trenta metri. Lui – sui quarant’anni, alto e massiccio come tutti i tongani – si avvicinò, mi scrutò e mi compianse per il problema che stavo affrontando. Una malattia, certo psicosomatica, di cui mi disse anche la causa. Mi propose un rito liberatorio, per guarirmi.
È una profezia come quella dell’indovino a Terzani, ho pensato. Farò quello che dice, e un giorno scriverò di lui. Ma non l’ho fatto, neanche quando si è compiuta. A Tonga ero andata per sparire – come gli altri bianchi. Le connessioni erano rarissime e costose, vivevamo senza. Ma in realtà, come quasi tutti, lì mi sono ritrovata. Per questo mi lascio tentare dal pensiero magico. Tonga è sparita nella nube di vapore, fulmini e gas per il risveglio dei suoi dèi estinti. Ma dissipata la cenere potrà essere ritrovata.