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 2022  gennaio 21 Venerdì calendario

Magrito e gli altri cronisti morti ammazzati in Messico

Era difficile registrare la voce di Margarito Martinez. Ogni volta che iniziava a parlare e gli avvicinavi il microfono si sentiva il gracchiare della radio. “A casa sono Margarito, ma i colleghi mi chiamano 4-4”. Cuatro cuatro è un modo di chiudere le comunicazioni radio tra le forze dell’ordine in Bassa California. Margarito era un fotografo di cronaca nera, il più conosciuto di Tijuana. Una delle città più violente al mondo. Per oltre vent’anni ha fotografato le vittime di crimini atroci. Era il primo a sapere di un omicidio, conosceva a menadito i quartieri più pericolosi ed era sempre disponibile a portarti a vedere la scena di un delitto. Tre giorni fa è stato ucciso.
Gli hanno sparato davanti a casa sua, era appena salito in auto. Diversi colpi da distanza ravvicinata con una 9 millimetri. È il secondo giornalista morto ammazzato in Messico dall’inizio dell’anno. Il 10 gennaio a Veracruz è stato accoltellato Jose Luis Gamboa, direttore del sito di notizie Inforegio. L’Afghanistan è il paese il cui vengono uccisi più giornalisti. Il secondo è il Messico: 50 in meno di tre anni. Il mese scorso Margarito aveva chiesto di essere integrato nel “meccanismo di protezione per i difensori dei diritti umani e giornalisti”. Era stato minacciato. Da anni camminava su un filo sottile, raccontava la violenza dei narcos. Sapeva come farlo, ma era ben cosciente del rischio. E non ci sono solo i narcotrafficanti. L’ultimo episodio spiacevole era stato con un ex poliziotto: Ángel Peña. L’ex agente gestisce una pagina Facebook dove con mascherina e cappello, per proteggere la sua identità, a modo suo denuncia la corruzione della polizia e attacca la stampa. Circa una settimana fa Peña, mentre faceva una diretta sui social, ha incontrato Margarito. Lo ha minacciato e poi additato come creatore occulto di una serie pagine Facebook che prendono di mira i narcos. Pochi giorni dopo 4-4 è stato ucciso. Peña è stato tra i primi ad arrivare sul luogo dell’omicidio. Di certo non sono dati sufficienti per accusarlo, ma è un episodio significativo. Da anni il Messico vive ostaggio di una guerra tra bande. Nel 2016 l’arresto e l’estradizione di Joaquìn Guzman, conosciuto come El Chapo, mandò nel caos tutta la Bassa California. Da lì passano buona parte dei traffici di droga ed esseri umani che dal Messico vanno negli Usa. Con la decapitazione del cartello di Sinaloa a Tijuana si contavano oltre 30 omicidi alla settimana. La mattanza durava da mesi e Margarito aveva iniziato ad aiutare gli inviati stranieri per raccontare cosa stava accadendo. Il Los Angeles Times, poi la Bbc e nell’estate del 2017 anche noi. “La gente si sta abituando a vedere omicidi a ogni angolo della strada, oramai dicono che non è più nulla di grave, solo un morticino in più”. Parlava calmo con un castigliano pieno di diminutivi, tipici del Centroamerica. Era affascinate e macabro vederlo lavorare. Fotografava solo morte, ma tra una scena del crimine e un’altra non c’era né cinismo né rabbia. Tutto cominciava con un messaggio, con una conversazione sul walkie talkie. Appena aveva un indirizzo si metteva alla guida di una vecchia Sedan, il passaruota destro era di un colore diverso dal resto della carrozzeria. La sfida era arrivare prima che la polizia chiudesse l’aerea. Quando partiva non sapeva se arrivando sul luogo della sparatoria avrebbe trovato un morto, un ferito o se i sicari fossero ancora lì vicino. Qualche foto, un paio di video e due informazioni da chi abitava lì. Capitava che Margarito sapesse il nome della vittima prima ancora della polizia.
Una mattina ci ha inviato una posizione gps, chiedendoci di raggiungerlo. Era una sorta di campo incolto tra due quartieri periferici. L’area si stava trasformando in una piccola discarica. Le forze dell’ordine avevano messo il nastro per delimitare il nostro accesso. Quattro giornalisti in tutto. Un ragazzo poco più che ventenne era stato ucciso, gli arti superiori erano amputati. “Ci sono 200 tra giornali, televisioni e siti che lavorano a Tijuana, ma qui ci siamo solo noi”. Margarito non si stava lamentando, voleva farci capire qual era il suo ruolo. “Meno raccontiamo cosa accade, più tutto questo diventa la normalità”. Mentre la polizia caricava il corpo mutilato su un furgone ci ha fatto segno che era ora di andare via. “Per fare un bel lavoro devi arrivare prima della polizia, ma per evitare problemi devi andare via prima di loro”. L’esperienza gli aveva insegnato che il luogo di un omicidio attira alcuni curiosi che è meglio evitare. Un tardo pomeriggio lo chiamarono per andare a fotografare un omicidio in una zona tranquilla della città. Su una strada a sei corsie davanti a un enorme centro commerciale c’era un suv bianco. A terra i vetri in frantumi e attorno il vuoto. Sul sedile posteriore un seggiolino, al volante una donna morta. Freddata da una motocicletta che le si era affiancata. “Chissà chi era o cosa aveva fatto? In questa città c’è talmente tanta violenza che possono uccidere chi ti passa accanto e non ci domandiamo più il motivo”. Nei giorni in cui ha condiviso con noi il suo lavoro non ha mai cercato di farci lezioni. Margarito osservava, fotografava; era una figura fondamentale per raccontare quello che accade a Tijuana.