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 2022  gennaio 20 Giovedì calendario

Intervista a Donald Sassoon

Che strano. A oggi il capitalismo ha sempre sconfitto tutti i suoi avversari, dal comunismo alla “decrescita felice”. «Sinora si è dimostrato immortale, senza rivali. Persino la Cina è diventato uno dei Paesi più brillantemente capitalisti. Ora, però, è arrivato il pericolo più grande per la sua esistenza », ammonisce Donald Sassoon nella sua casa al centro di Londra, mentre emerge della musica classica di sottofondo. «E cioè la lotta al cambiamento climatico. Che, proprio perché è vitale e necessaria, potrebbe mettere a repentaglio i pilastri del capitalismo: ossia i consumi, gli spostamenti, la concorrenza, la crescita».
E però Donald Sassoon, 75 anni, storico britannico già autore di Sintomi morbosi , studioso di Gramsci e Marx, italiano sempre impeccabile, nato da una famiglia ebraica in Egitto sotto il protettorato inglese e istruito tra Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, lo ripete ogni volta: «Sono uno storico, non prevedo il futuro». Anche per questo, grazie a Garzanti, oggi arriva anche in Italia la sua ultima opera: Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo 1860-1914 .
Un avvincente tomo di 828 pagine, come sempre straordinariamente erudito, che draga nelle radici del capitalismo moderno. Per comprendere la sua potenza, la sua longevità e anche il suo futuro a breve e lungo termine. Perché il suo spettro si aggirerà ancora per molto nel mondo.
Sassoon, perché per questo libro ha scelto il periodo 1860-1914?
«Nel 1860 l’Inghilterra è già una società capitalista, mentre tutti gli altri Paesi si spingono verso una società industriale.
Nel frattempo, l’Italia e la Germania diventano i Paesi che conosciamo oggi. Negli Stati Uniti la guerra civile non solo mette fine alla schiavitù, ma segna anche il trionfo del capitalismo promosso dal Nord. In Russia, dopo la sconfitta in Crimea, persino lo zar abolisce la gleba perché sarebbe stata controproducente. Nel 1868 il Giappone ha una sorta di rivoluzione “capitalista”, la “Meiji”, per paura di diventare una colonia. In Francia nel 1870 s’inaugura la Terza Repubblica. Stiamo parlando di un periodo straordinario, di grande globalizzazione e di enorme proliferazione degli Stati moderni e contemporanei».
Ma come mai lei definisce “ansioso” questo successo politico e sociale?
«È un periodo sconvolgente, di trionfo del capitalismo. Che converte anche i più scettici, come i reazionari o i cattolici, che difatti passano dall’opposizione di Pio IX all’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII sulla questione operaia. O gli stessi socialisti e poi i comunisti, che considerano il capitalismo un mezzo per ottenere la “rivoluzione”. Allo stesso tempo, però, il capitalismo inizia a generare un’ansia crescente».
Perché?
«Perché l’ansia è endogena nel capitalismo. Non sei mai sicuro del tuo posto di lavoro, bisogna essere sempre pronti alle rivoluzioni tecnologiche, un concorrente di qualsiasi parte del mondo può sbaragliare la tua azienda, l’imprenditoria cambia continuamente: ora big come Amazon consegnano pacchi, Apple genera idee ma poi i prodotti vengono costruiti in Cina. E l’ansia aumenta sempre di più. Perché il capitalismo non esiste senza crisi: queste ultime lo rigenerano».
E come si può placare questa ansia?
«In vari modi, come visto in passato. Allargamento del suffragio elettorale, una democrazia più inclusiva, welfare state, che approvò persino uno come Bismarck, di certo non un progressista. A ulteriore conferma che il capitalismo non può esistere ed essere benefico senza uno Stato forte, e viceversa».
Oltre all’ansia, però, il capitalismo occidentale ispira anche grande ottimismo.
«Vero. Altrimenti milioni di persone da tutto il mondo non vorrebbero entrare ogni giorno nei nostri Paesi e far pienamente parte del capitalismo e del welfare state».
Allo stesso tempo, però, è innegabile che stiano crescendo le disuguaglianze, addirittura più marcatamente con il Covid.
Questo non è un problema?
«Certo che lo è. Ma ho una visione diversa da studiosi come Thomas Piketty. Globalmente, le persone stanno meglio di decenni fa, basti vedere i 400 milioni di cinesi tirati fuori dalla povertà. E la classe media in Occidente tendenzialmente continua ad avere la possibilità di comprare una casa, le automobili, viaggiare all’estero».
Quindi lei non intravede un pericolo di ribellioni contro le disuguaglianze? È vero che, come diceva De Tocqueville, queste possono arrivare quando meno te lo aspetti. Ma è anche vero che rivolte come Occupy Wall Street sono state un buco nell’acqua.
«Non credo che oggi proteste del genere possano nascere dall’opposizione a un concetto teorico di disuguaglianza, bensì da avvenimenti che intaccano direttamente la vita delle persone. Lo abbiamo visto con i Gilets Jaunes per i prezzi della benzina in Francia o in queste ultime settimane in Kazakistan. E qui arriviamo alla legittimazione del capitalismo, che avviene innanzitutto attraverso la società dei consumi, come abbiamo notato oltre la Cortina di Ferro prima e dopo la Caduta del Muro, quando le persone si fiondarono nei negozi. Proprio per questo pilastro della società dei consumi, la rivoluzione verde potrebbe essere il primo duro colpo per il capitalismo».
«Per raggiungere gli obiettivi ambientali, bisognerà ridurre la produttività, la competizione e dunque i consumi. Chi coordinerà l’azione di centinaia di Paesi? Sarà complicatissimo. Questa sarà la prova più importante per il capitalismo occidentale. Che però potrà ancora salvarsi e perpetuarsi».
Come?
«Innanzitutto sperando in una tecnologia sempre più vantaggiosa. E sfatando anche alcuni tabù, come il ricorso all’energia nucleare».