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 2021  aprile 23 Venerdì calendario

Su "Amici. Comprendere il potere delle nostre relazioni più importanti" di Robin Dunbar (Einaudi)



Lockdown e smart working hanno cancellato le serate con gli amici e i pranzi con i colleghi a cui siamo più legati? "Attenzione: la qualità dei rapporti potrebbe deperire rapidamente. Meglio trovare occasioni per vedersi e, in mancanza d’altro, ben vengano aperitivi o cene virtuali su Zoom". A dirlo è Robin Dunbar, docente di Antropologia dell’evoluzione all’Università di Oxford e grande esperto di amicizia: nel suo famoso saggio Di quanti amici abbiamo bisogno (Raffaello Cortina, 2011) individuò il numero massimo di relazioni sociali stabili che si possono avere in 150 (poi definito il numero di Dunbar). Ci è arrivato studiando la relazione tra la dimensione dei gruppi sociali dei primati, uomo compreso, e la grandezza dei loro cervelli. Più neuroni si hanno, più si riescono a tenere a mente le caratteristiche di ogni membro del proprio gruppo e il modo migliore per mettersi in relazione con quello, che è precondizione per l’amicizia. 

"La correlazione tra numero di amici e dimensione di certe aree cerebrali vale ancora oggi per ognuno di noi" spiega Dunbar. "In studi condotti insieme alle neuroscienzate Penny Lewis e Joanne Powell abbiamo mostrato che le persone che dichiarano di avere più amici hanno una corteccia prefrontale più ampia: è l’area cerebrale legata alla "mentalizzazione", ovvero a capire il punto di vista altrui, e alla capacità di trattenere i propri impulsi, preziosa per andare d’accordo con gli altri".


Tanta organizzazione cerebrale ci permette di articolare le nostre relazioni secondo vari livelli di intimità e confidenza: quelle che Dunbar chiama le cerchie dell’amicizia e di cui parla nel nuovo saggio, Friends: Understanding the Power of Our Most Important Relationships (Amici, capire il potere delle nostre relazioni più importanti, Little Brown). "Queste cerchie si formano in base al modo in cui distribuiamo il nostro tempo con gli altri" spiega. "Studiando una ricca selezione di società - che va dagli abitanti di Dundee (Scozia) agli agricoltori del Nepal e ai pastori Masai dell’Africa occidentale - posso dire che la persona media dedica grosso modo il 20 per cento del suo tempo di veglia (circa 3,5 ore) alle interazioni sociali". Queste avvengono però su livelli diversi, che Dunbar ha rappresentato con cerchi concentrici: "Il numero massimo di facce a cui associamo un nome è 1.500, cinquecento sono i conoscenti (persone con cui prenderemmo una birra dopo il lavoro, ma che non inviteremmo alla nostra festa di compleanno), 150 quelle che ci sforziamo di contattare almeno una volta all’anno, 50 quelli che contattiamo almeno una volta ogni sei mesi, quindici gli amici-parenti che sentiamo almeno una volta al mese e cinque le persone a cui siamo emotivamente più vicini (io le chiamo "le spalle su cui piangere") e che contattiamo almeno una volta a settimana. All’incirca il 60 per cento del nostro tempo sociale è riservato a tutti coloro che rientrano nella cerchia dei 15".

In che cerchia sei?

"I confini di queste cerchie emergono dai nostri comportamenti sociali, ad esempio dalla frequenza con cui  su Facebook postiamo commenti dove specifichiamo il nome di una persona" spiega l’antropologo. "Ma pressoché gli stessi numeri spuntano anche se si categorizzano gli amici sulla base della frequenza con cui li si chiama al telefono. Lo conferma uno studio della Aalto University finlandese, che ha esaminato 1,9 miliardi di chiamate effettuate da 33 milioni di adulti".Le cerchie dell’amicizia vengono da lontano: riproducono strutture sociali che si sono formate nei lunghi tempi dell’evoluzione umana, quando si passava tutta la vita in comunità piccole, dove vedersi di persona era la norma. "Oggi le nostre cerchie sono geograficamente molto più disperse, e riescono a mantenersi salde grazie a telefono e internet" spiega Dunbar. "Ma rimangono alcuni fenomeni che testimoniano l’importanza della prossimità, come la "regola dei 30 minuti" trovata dai sociologi canadesi Barry Wellman e Diane Mok: in media se dobbiamo viaggiare per più di 30 minuti per vedere qualcuno che non sia un amico intimo o un parente stretto, questo riduce di molto il nostro desiderio di farlo". Wellman e Mok hanno trovato che gli incontri iniziano a diradarsi oltre gli otto chilometri, con un secondo brusco calo dopo 80 e un terzo calo netto a 160. "Curioso è che ciò valga anche ai tempi dello smartphone: i dati delle compagnie indicano con chiarezza che chiamiamo più spesso chi vive più vicino a noi".


Esiste poi un singolare effetto di compensazione, che evidenzia la necessità di una costante manutenzione delle relazioni: "Kunal Bhattacharya della Aalto University ha trovato, sempre dai dati di telefonia mobile, che quando chiamiamo uno dei nostri 50 "buoni amici", la telefonata è tanto più lunga quanto più tempo è trascorso dall’ultima volta che ci siamo sentiti. È così che si recupera la qualità emotiva delle amicizie" spiega Dunbar.


Ciascuno di noi ha poi un modo personale di coltivarle, che Dunbar ha definito "impronta sociale". L’ha dedotto seguendo un gruppo di studenti universitari tramite questionari e analisi del traffico telefonico. "Nel contattare gli amici ognuno segue uno schema caratteristico: c’è chi chiama il migliore amico trenta volte alla settimana e chi solo dieci. La cosa sorprendente - che mi fa parlare di "impronta sociale" - è la stabilità di questo schema. Mi spiego: se in una settimana io chiamo 20 volte il mio migliore amico Mark e 5 volte John, e poi, per qualsiasi motivo, magari perché Mark si sposa e ha meno tempo per me, le loro posizioni nella mia cerchia di amicizie si invertono e John diventa il mio migliore amico, probabilmente chiamerò lui 20 volte a settimana, e 5 volte Mark. Insomma rimane pressoché invariato il modo in cui distribuisco il mio tempo tra gli amici, indipendentemente da chi essi siano".

Prendiamoci un caffè

Un altro fattore importante è la personalità: "Gli introversi preferiscono dedicare maggiori quantità di tempo a un numero inferiore di amici. Gli estroversi invece puntano a costruire più relazioni, ma poi riservano meno tempo a ciascuno. Il risultato è che questi ultimi faticheranno di più a trovare qualcuno che corra in loro aiuto nel momento del bisogno". Già, perché l’amicizia richiede impegno: "I dati ci dicono che bastano pochi mesi, in media sei, di assenza o disinteresse per farci scivolare nelle cerchie più esterne dei nostri amici".


Insomma, quando, dopo un incontro fortuito al supermercato con qualcuno che non vedevamo da tempo, ci salutiamo dicendo con aria ispirata "dobbiamo assolutamente prenderci un caffè. Sentiamoci presto", sarebbe meglio farlo davvero. Anche perché gli amici sono anche una polizza sanitaria: "Le attività che facciamo insieme a loro - in particolare quelle che coinvolgono la musica - stimolano la produzione di endorfine, gli "ormoni della felicità" che tengono attivo il sistema immunitario" spiega Dunbar. "Mentre la solitudine pare associata a una minore resistenza a virus e batteri: Sarah Pressman, della Carnegie Mellon University, ha trovato che le persone che frequentano un numero di amici tra 4 e 12 hanno risposta immunitaria inferiore a chi ne frequenta più di 13".