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 2022  gennaio 13 Giovedì calendario

Intervista a Paola Gassman

Figlia di Vittorio Gassman e Nora Ricci, ma anche nipote di Renzo Ricci ed Ermete Zacconi, nonché sorella di Vittoria Gassman, Alessandro Gassmann e Jacopo Gassmann: tutti figli avuti dal padre con mogli diverse. «Sì – ride Paola Gassman – una famiglia piuttosto complessa anche con l’uso delle “enne” nel cognome».
Ecco ci spieghi perché solo i fratelli Alessandro e Jacopo ne hanno due.
«Papà, di origini tedesche, se ne era tolta una dal cognome originale. Quando sono nata io, la primogenita, era giovanissimo e all’anagrafe sbagliò persino il mio giorno di nascita, disse all’impiegato che ero nata il 28 giugno, invece sono nata il 29 giugno, e infatti mi chiamo Paola proprio perché è la festa di San Pietro e Paolo. Ma posso comprendere la sua sbadataggine: aveva poco più di vent’anni e aveva la testa altrove. Forse quella mattina, mentre era in fila per dichiarare la mia nascita, stava leggendo un copione che doveva studiare per andare in scena... E su questo sbaglio, in seguito, ci scherzava spesso, dicendo: “È la farsa del tuo compleanno”. Poi, strana coincidenza, la data della mia nascita è coincisa con quella della sua morte, il 29 giugno 2000».
Che padre è stato?
«Ovviamente assente nella mia infanzia, ma lo scuso per essere stato poco presente, come avrebbe potuto essere altrimenti? Lui stesso si è scusato della sua assenza e del suo non essere all’altezza del compito, non era portato ad assumere questo ruolo. I miei genitori si sono separati quando avevo tre anni ed erano entrambi molto presi dalle loro carriere, io sono il frutto di un incidente di percorso e fino, grosso modo, agli anni dell’adolescenza ho vissuto con mia madre... lui lo vedevo molto poco, era nel pieno della sua affermazione da attore, che per altro non era stata una sua scelta».
Cioè Vittorio Gassman non voleva salire in palcoscenico?
«Assolutamente no. Fu sua madre a spingerlo perché voleva cambiare l’indole del figlio: papà era stato un ragazzino introverso, timido, tutto dedicato allo studio, alla scrittura... voleva diventare scrittore. Ma mia nonna fu drastica e lo costrinse a entrare in Accademia d’Arte drammatica. Una imposizione che risultò assolutamente giusta, tuttavia mio padre, quando era anziano, affermò che quel dover cambiare carattere forse gli causò la depressione, ne aveva pagato in qualche modo lo scotto... In una delle sue ultime apparizioni in teatro, disse: “Voglio andarmene con le mie gambe, tira una brutta aria”. Ma subito dopo affermava, con la sua grande ironia, che faceva credere al pubblico che fosse uno spettacolo di addio, per solleticarne la curiosità di vederlo morire in palcoscenico».
Con tali ascendenze, lei non poteva fare altro che l’attrice...
«Mia madre, essendo altrettanto figlia d’arte, ha fatto del tutto per impedirmelo, desiderava per me una vita più normale e non come la sua sempre in tournée, da scavalcamontagne. Frequentai il liceo classico Tasso, lo stesso di mio padre, e quando dovevo scegliere la facoltà universitaria, gli rivelai la mia intenzione di iscrivermi all’Accademia: scoppiò un melodramma... Tanto che, al mio provino di ammissione, arrivò al punto di raccomandarmi all’incontrario».
Ovvero?
«Alla Silvio D’Amico, naturalmente, conosceva tutti gli attori e i registi che facevano parte della commissione esaminatrice. Li supplicò di non farmi passare l’esame solo perché ero figlia di... preferiva che mi bocciassero».
E invece superò la prova: papà Vittorio fu contento?
«Sì e in seguito, più volte, tentò di coinvolgermi nei suoi spettacoli, ma io all’epoca ero una sessantottina, una ribelle, lo contestavo, non mi piaceva l’idea di fare la parte della raccomandata... era troppo facile debuttare vicino a un personaggio tanto famoso. Solo molti anni dopo ho accettato di recitare con lui in O Cesare o nessuno, spettacolo ispirato alla figura e al mito di Edmund Kean, ma perché in verità non interpretavo un ruolo, ero me stessa, nella parte di una spettatrice. E quel lavoro fatto insieme è servito a sciogliere parecchi nodi affettivi e psicologici tra lui e me. Ci facevamo delle sane litigate, che partivano sempre da pretesti magari professionali, discutevamo ad alta voce, fino a urlare... papà sapeva essere anche perfido, ma io gli rispondevo a tono e quei dissidi ci hanno consentito di conoscerci meglio, ci hanno aiutato a essere più vicini e, tutto sommato, a diventare alla fine anche complici».
Prima di diventare complici, però, lei come ha vissuto la nascita dei vari fratelli-sorelle? Ne è stata gelosa?
«Per niente. Della nascita di Vittoria seppi ascoltando la radio, in quanto era figlia non solo di mio padre, ma di un’attrice famosa come Shelley Winters. E l’ho conosciuta quando ero più grandicella».
Ed è l’unica che non ha fatto la carriera artistica...
«No, ha scelto una strada completamente diversa: si è presa due lauree e fa il medico, infatti papà diceva che era l’unica seria in famiglia. Forse Vittoria ha sentito poco l’influenza paterna e mi ha raccontato cosa rispose, una volta, a nostro padre quando lui si scusò per essere stato troppo distratto nei suoi confronti. Gli disse: sì, papà, è vero che mi sei mancato molto, ma forse ho sofferto di più la vicinanza di mamma...».
Quando è nato Alessandro, figlio dell’attrice francese Juliette Maynielle, com’è andata?
«Avevo già vent’anni... più che una sorella maggiore, mi sono sentita una specie di zia, perché mia figlia Simona ha solo due anni più di lui. Per non parlare poi di quando è arrivato Jacopo, figlio di Diletta D’Andrea e un po’ più piccolo di mio figlio Tommaso. Quando venimmo a sapere che mio padre, ormai abbastanza in là con l’età e molto imbarazzato, era in attesa di un nuovo pargolo, mio marito Ugo (Pagliai ndr) mi disse lapidario: “Può andare bene che tu aspetti un fratello, pur essendo abbastanza strano, ma il colmo è che io invece aspetto un cognato!”».
Una famigliona davvero tanto allargata...
«Verissimo, però ci vogliamo bene, ci siamo sempre rispettati, proprio grazie ai pregi di chi ci ha messo al mondo: Vittorio, sia pure con una buona dose di egoismo, non ha mai reclamato obbedienza da noi figli. Non era dotato certo di nessuna caratteristica del buon padre, non era portato a esserlo, eppure è stato, a suo modo, un grande padre. Certo, è stato un grande seduttore, però poi le sposava quasi tutte... Insomma, ci ha trasferito degli insegnamenti, senza dettarceli, ma mostrandoli attraverso la sua onestà, il suo rigore, la sua intelligenza e anche, perché no, la sua intransigenza».
Con chi di voi andava più d’accordo?
«Certamente con i figli maschi: diciamo la verità, è sempre stato un po’ maschilista e con loro probabilmente ha scoperto il significato della vera paternità. Tra i due, ha seguito soprattutto Alessandro, perché con Jacopo è stato quasi un nonno ed era consapevole che non gli restavano tantissimi anni per seguirne la crescita. Per quanto mi riguarda, negli ultimi tempi mi paragonava in un certo senso alla figura di una madre, ero la più grande e, tra i quattro figli, rappresentavo quella che lo riportava alla sua famiglia di origine: negli ultimi tempi, insomma, tra me e lui bastavano pochi sguardi o semplici gesti molto eloquenti, non c’era bisogno di tante parole... però mi ha dedicato una bellissima poesia, dove dice tra l’altro “anche con te, Paola, sono in debito / per la serenità che mi dai sempre”».
Come mai voi tre fratelli artisti non avete mai lavorato insieme?
«Innanzitutto, tra noi, vige una regola: non si devono fare progetti insieme perché sei figlio o fratello o sorella di... Se capita l’occasione, ben venga e lo si fa volentieri, altrimenti diventa una forzatura, una roba gratuita. Aggiungo che tutti noi siamo dotati di un certo pudore nel metterci a fare uno spettacolo o un film o altro insieme. Inoltre abbiamo percorsi diversi: io sono decisamente più legata al teatro, Alessandro è molto cinematografico, Jacopo non fa l’attore, ma ama la regia...».
E lei, in teatro, adesso interpreta con suo marito una curiosa versione di «Romeo e Giulietta».
«In effetti è davvero una curiosa versione. Nonostante Ugo e io non abbiamo più l’età giusta per i due celebri personaggi, ci capita questa strana avventura, che è nata in un modo altrettanto curioso».
Dunque non è stata una vostra decisione?
«Per carità! Un giorno il regista di Babilonia Teatri, Enrico Castellani, ci racconta il progetto cui stava pensando e lavorando, dove i protagonisti dell’opera shakespeariana non sono due ragazzi, bensì due adulti con qualche capello bianco. Noi gli rispondiamo che era una bella idea e gli chiediamo: chi li reciterà? E lui ribatte: voi due! Noi due? Restammo sconcertati...».
Però avete accettato la proposta, e a breve sarete al Teatro Biondo di Palermo, poi al Carcano di Milano...
«Sì, perché è una interpretazione singolare. Lo spettacolo si intitola Romeo e Giulietta: una canzone d’amore e consiste in un percorso parallelo alla storia emblematica dell’amore tra i due giovani. Qui è la storia mia e di Ugo che stiamo insieme da più di cinquant’anni e che ci raccontiamo in una sorta di lunga intervista, senza alcun imbarazzo. Non esiste un copione vero e proprio... certo, ci sono alcune delle parti recitate tratte dal testo originale, che sono talmente belle, ma si arricchiscono di un’esperienza ulteriore di vita vissuta da persone come noi».