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 2021  dicembre 04 Sabato calendario

Intervista a Pietro Scarpa


In ossequio all’antico adagio «Venessiani gran signori», Pietro Scarpa possiede due musei personali. Uno, aperto al pubblico, è a fianco delle Gallerie dell’Accademia, inconfondibile per la porta d’ingresso a forma di oblò disegnata da Carlo Scarpa: «Nessuna parentela». L’altro è la sua casa di Cannaregio, riconoscibile dalla monumentale facciata con le altinelle, i mattoni di piccole dimensioni che a Venezia furono usati fino al Trecento. Nel primo giganteggia L’origine di Amore del Tintoretto, tela di 2,5 metri per 1,80 esposta in passato dal Museo Puškin di Mosca, che Scarpa recuperò a Parigi trent’anni fa: «I pirati informatici mi rubano l’immagine sul Web e vendono a 1.500 euro il poster a grandezza naturale», sbuffa il decano degli antiquari. Nel secondo pochi intimi possono ammirare il Ritratto di Zuan Paolo da Ponte di Tiziano, appena tornato da una mostra a Palazzo Tadea di Spilimbergo, due Tiepolo, due Cima da Conegliano, un Veronese, un Carpaccio, una Madonna con Bambino e angeli di Donatello e una di Brunelleschi, più infiniti altri capolavori, fra cui l’unico ritratto esistente al mondo dell’editore tipografo Aldo Manuzio («quasi certamente dipinto da Carpaccio»), e uno strepitoso tavolo di Gio Ponti, con simboli zodiacali su fondo dorato e specchio centrale che riflette una cornice in ceramica di Luca della Robbia, appesa al muro della sala da pranzo.
Presto saranno 70 anni che Scarpa fa questo mestiere: inseguire, trovare, studiare, datare, autenticare. «Una volta fui chiamato a valutare un Tiziano che Aristotele Onassis aveva regalato a Ranieri di Monaco e Grace Kelly per il loro matrimonio: era falso». Presentandolo all’Università di Harvard, Andrew Robinson, curatore della National gallery di Washington, ne pronunciò solo nome e cognome, giacché tutti gli studiosi e i collezionisti del mondo o erano già stati nella sua galleria vicino al ponte dell’Accademia o ci sarebbero capitati. Nessuno riesce a oltrepassare quelle vetrine disposte su tre diversi lati senza fermarsi a guardare. «See you later un’ostrega!», è il borbottio che insegue i turisti perditempo se osano entrare solo per curiosare.
Sottovoce, ma non le manda a dire.
«Sa, per noi veneziani oltre il ponte della Libertà è tutta campagna. Un giorno mia moglie vede un ragazzo con il naso incollato alle vetrine: “Varda che bel fio!”. Il giovanotto suona il campanello. Non volevo aprire. Tatiana lo fa entrare: era Leonardo DiCaprio con la mamma».
E che cos’ha comprato?
«Niente. Vuol mettere Cesare Merzagora, presidente del Senato, appassionato di vetri romani? Anche Elton John è un cliente erudito. Andava a istruirsi nella sacrestia di San Zaccaria. Gli ho venduto due pannelli di nudi del Cinquecento».
Fra i suoi clienti, Amintore Fanfani.
«Valente pittore. Venne nel mio stand alla mostra di Palazzo Strozzi. Gli chiesi: che cosa pensano di noi negli altri Paesi? Rispose: “Quando i miei colleghi mi fanno parlare del popolo italiano, dico sempre che è meglio dei suoi governanti”».
Ha conosciuto Peggy Guggenheim?
«No, era troppo fissata con l’arte moderna. La incontrava mia moglie dal parrucchiere Gino, in Frezzaria. Pretendeva la messa in piega anche per il suo cane».
È sempre stato qui all’Accademia?
«Dal 1997. La prima bottega la aprii a 17 anni in calle Larga XXII Marzo. Poi traslocai in campo San Moisè, un buco di 9 metri quadrati. I futuri papi Roncalli e Luciani, allora patriarchi, veste nera senza bottoni rossi, venivano lì a ciacolar con i gondolieri. Ezra Pound riposava assorto su una sedia fuori dal mio negozio».
Dov’è nato?
«Sestiere di San Marco, sotto il campanile pendente di San Maurizio. A 14 anni dovetti andare a bottega dallo zio Antonio. Vendeva quadri modesti. A parte un Cristo portacroce attribuito a Tiziano».
Un po’ presto per lavorare.
«Sulla carta d’identità di mio padre c’era scritto “possidente”. La sua famiglia era proprietaria di botteghe a San Marco e sul ponte di Rialto e di case a Pellestrina. Purtroppo morì di cancro a 49 anni».
La sua cultura come se l’è fatta?
«Musei e libri, libri e musei. Ho passato due terzi della mia vita nelle Gallerie dell’Accademia, a studiare La Tempesta di Giorgione, Giovanni e Gentile Bellini, Lorenzo Lotto, Vittorio Carpaccio. Quando non ero lì, stavo al Museo Correr o alla Fondazione Querini Stampalia».
Qual è il pezzo forte qua dentro?
«Si giri: Giovanni Boltraffio, allievo di Leonardo da Vinci. Lo storico dell’arte George Knox ha ipotizzato che sia la vestale romana Tuccia. Nol gà capìo gnente! È La Purezza. Infatti regge un catino e si specchia nell’acqua limpida».
Dove lo ha scovato?
«A Parigi, 30 anni fa. Lo misero all’asta, ignorando che cosa avevano fra le mani. Oggi vale 800.000 euro. Nella capitale francese rintracciai anche L’origine di Amore, commissionata nel 1562 da Federico Contarini, procuratore di San Marco, per adornare l’antisala della Libreria Marciana, pagata al Tintoretto 5 ducati d’oro. Fu trafugata alla caduta della Serenissima. L’avevano gli eredi del Duca di Treviso, maresciallo di Napoleone».
Eh già, i bonapartisti fregarono tutto.
Accertai che il quadro donato
da Onassis per le nozze di Ranieri
di Monaco era falso. Con i pareri degli storici mi pulisco le scarpe
«In un bric-à-brac vicino alla casa d’aste Hôtel Drouot rinvenni la Madonna allattante con Bambino di Cima da Conegliano. La tengo appesa ai piedi del letto. Uscì dalla mia camera solo per una mostra al Bunkamura museum di Tokyo».
Possibile che i tesori li trovi tutti lei?
«Sì, perché li ho catalogati qui dentro». (Si tocca la fronte con l’indice destro). «E ci vedo ancora bene. Vado in Germania. Un amico mi mostra dei disegni. Ne intuisco il valore. Li compro e li studio per mesi: erano un’importantissima collezione seicentesca del doge Zaccaria Sagredo. A casa ho anche due enormi ritratti dei dogi Cornaro, uno di Sebastiano Ricci, l’altro di Pietro Liberi. In origine si trovavano nel Palazzo Corner, dove oggi ha sede la Guardia di finanza, che me li ha chiesti in comodato d’uso per appenderli negli uffici del comando. Ma la mia Tatiana è stata irremovibile: “Dighe che i taca al muro le foto”».
Serve un portafoglio a fisarmonica, per accaparrarsi simili capolavori.
«Serve coraggio. Le opere che vede sono tutte nostre, mai tenuto roba in conto vendita. Il 12 settembre 2001 i miei figli Sebastiano e Jacopo le chiusero nel caveau: il giorno prima c’era stato l’attacco alle Torri gemelle, si pensava che l’Italia entrasse in guerra. Il postino ci recapitò un catalogo. Jacopo notò un quadro che veniva battuto quella sera stessa a Vienna. Partì: aeroporto deserto, casa d’aste vuota. Si aggiudicò la tela per 2.500 euro. Nessuno capiva chi fosse l’autore. Ora lo sappiamo: Lorenzo Lotto».
Chi lo dice?
«Il mondo. Ce l’ha chiesto in prestito persino il Museo pontificio della Santa Casa di Loreto, dove sono custodite le ultime 9 tele che Lotto dipinse dopo essere diventato oblato del santuario. Raffigura il suo protettore Agostino Filago».
Ma come fa a essere così sicuro nell’attribuzione delle opere che individua?
«Con i pareri degli esperti, Vittorio Sgarbi escluso, mi pulisco le scarpe. Un tempo le secondogenite delle famiglie patrizie venivano mandate nel monastero di San Zaccaria. Oggi, invece di farsi suore, studiano storia dell’arte. Ho a che fare ogni giorno con stranieri che riscrivono le vite dei nostri pittori e scultori senza parlare l’italiano, senza conoscere una sola parola di latino. Non sanno leggere un documento antico. Sono fermi all’ipse dixit. Da piangere, guardi. Ci sono universitarie che arrivano qui con la tesi ed escono dopo averla rifatta».
Ci sarà pure qualche eccezione.
«Certo. Doretta Davanzo Poli, docente di storia dell’arte tessile, capace di datare i quadri in base alla coerenza degli abiti, ma è morta, ahimè. E Rosa Barovier Mentasti, della famiglia muranese di soffiatori del vetro, l’archeologa che da una trasparenza identifica un Tintoretto».
Lei è considerato un mecenate.
«Mi piace regalare. Ho fatto restaurare da Corinna Mattiello il grande crocifisso della basilica di San Marco. Che emozione tenere fra le mani la testa del Cristo, in argento annerito dal tempo. Vederla brillare di nuovo nella notte di Pasqua è stata una gioia indescrivibile».
Ha regalato un dipinto del Perugino.
«Anni di studio per accertare che era la Santa Scolastica rubata da un soldato nella chiesa di San Pietro Vincioli a Perugia durante la Prima guerra mondiale. Mi è sembrato doveroso restituirla. Ho preso da mio padre. Aiutava don Olinto Marella, nativo di Pellestrina, fondatore a Bologna della Città dei ragazzi. Il futuro beato veniva spesso a casa nostra».
Ma che cos’è per lei l’arte?
«Se parla a chiunque la guardi, quella è arte. Ho avuto una discussione con il mio amico Pierre Rosenberg, già direttore del Louvre. Lui sosteneva che il quadro più bello del mondo è il San Francesco nel deserto di Giovanni Bellini della Frick collection di New York. Eh no, caro mio, è l’Assunta di Tiziano nella chiesa dei Frari, perché i 12 apostoli ai piedi della Madonna sono pescatori veri, di Burano e Chioggia. Ci ha pensato un attimo, poi ha concluso: “Hai ragione”».
Sua moglie Tatiana l’ha aiutata?
«Molto. E più ancora ha aiutato i vecchi dell’ospizio San Lorenzo e i pazienti oncologici. Si faccia raccontare da lei la storia di Fabrizia, giovane e bellissima malata terminale, che sul letto di morte volle sposare il suo Davide, pilota di aerei di linea. Mi no sarìa bon de contarla».
Questa città si può ancora salvare?
«René Maheu, direttore generale dell’Unesco, mi disse: “Venezia sta in piedi perché è tenuta su dai fili della luce”».
Quindi è destinata a morire?
«No, finché ci saranno i veneziani. Ma ormai ne restano pochi. Semo tuti veci».