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 2021  dicembre 03 Venerdì calendario

Luigi Prisco, il più grande interista di sempre

La storia «del più grande interista di sempre», parola del suo “vice” Massimo Moratti, comincia a Sud, a Torre Annunziata, esattamente un secolo fa. Peppino Prisco, «l’altro Avvocato» del pallone italico, nacque il 10 dicembre del 1921, a Torre Annunziata, da madre milanese e padre partenopeo. Questi, era l’avvocato Luigi Prisco, con studio legale avviato nella città campana dove “Peppiniello” crebbe da figlio unico («mio fratello Ernestino morì a soli tre mesi d’età») fino ai sette anni. Poi il ritorno a Milano, come atto d’amore del padre verso la moglie Alda, conosciuta in un romantico incontro al Caffè degli specchi di Trieste, cui seguì una breve ma intensa stagione d’amore epistolare, prima della nascita di “Giuseppe” e il trasferimento sotto il Vesuvio. Due anime, quella napoletana e la meneghina che emergevano in Peppino Prisco e che ne hanno fatto un genio precoce, non solo del foro.
Un aneddoto per tutti, raccontato dalla sua viva voce prima che ci lasciasse, il 12 dicembre di vent’anni fa – due giorni dopo aver tagliato il traguardo degli 80 –, è quello del “Cardinale”. Scena, aula della scuola elementare di Torre Annunziata: l’insegnante di religione fa l’appello: «Prisco Giuseppe?». Il bambino già allora più vispo di una Teresa risponde rapido: «Presente!». L’insegnante incuriosita, collega il cognome dell’alunno all’allora Arcivescovo di Napoli Prisco e domanda con piglio “devoto”: «Lei è per caso parente del Cardinale?». Raptus monicelliano: che cos’è il genio, se non fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione... Il piccolo Prisco non si fece pregare, e ribatté con sicumera: «Certo, era mio nonno!». Risata grassa di tutta la classe, e prima sospensione scolastica, «la prima di una lunga serie», ricorderà più tardi il diretto interessato, che in effetti era parente dell’Arcivescovo, «cugino del nonno», così come suo cugino è stato quel Michele Prisco, scrittore raffinato, classe 1920, al quale Napoli, alla Biblioteca Nazionale, sta dedicando una mostra celebrativa per il suo centenario. Causa Covid o forse perché la memoria di cuoio non è ancora materia di studio, come il calcio, nelle scuole della Cina di patron Zhang, fatto sta che il centenario dell’Avvocato Prisco rischia di passare sotto traccia. Eppure sarebbe strafelice di vedere questa Inter di Simone Inzaghi con lo scudetto al petto (lascito di Antonio Conte) ancora in corsa per un tricolore bis, addirittura ai danni dei cugini milanisti e di quella odiata Juventus che, per ora, arranca a distanza. E poi domani i nerazzurri sfidano la Roma. Ironia della sorte, quello fu anche il debutto di Prisco nell’organigramma non più dell’Ambrosiana, ma dell’Internazionale Fc del presidente Masseroni: stagione di Serie A 1949-’50. «La prima partita in casa a cui assistetti come dirigente (uno dei dieci consiglieri) fu un Inter-Roma 60 con tripletta di Nyers». Ora è la Roma di José Mourinho, un uomo speciale che lo specialissimo Prisco avrebbe abbracciato come un figlio, salutato come il fratello minore dell’amato Helenio Herrera, per poi ringraziarlo di cuore per aver regalato al popolo nerazzuro quel “triplete” che, quando lui se ne è andato, sembrava una chimera. Non ha gioito per quell’apoteosi interista del 2010, ma almeno si è perso lo psicodramma del 5 maggio (2002), lo scudetto gettato alle ortiche dal-l’Inter di Hector Cuper che all’Olimpico perse contro una Lazio già in vacanza.
«In compenso papà si è perso Calciopoli, la Juventus in serie B, gli scudetti in serie vinti dal-l’Inter... la Coppa dei Campioni riconquistata nel 2010, dopo 45 anni», confessava il figlio Luigi Maria Prisco in coda alla monumentale biografia di Marco Pedrazzini e Federico Jaselli Meazza Peppino Prisco. Una penna due colori. (ExCogita). La prima penna era stata quella del suo cappello da tenente degli alpini alla campagna di Russia, in forza al Battaglione “L’Aquila”. «Eravamo partiti in 59 e tornammo solamente in tre», raccontava amaro di quella tragedia bellica finita nelle pagine memorabili di Centomila gavette di ghiaccio. Il romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi, «mite medico alpino che aveva salvato là, sul Don, tante vite», sottolineava l’Avvocato. Per «gli alpini anziani», Bedeschi nato nel 1915 e per Egisto Corradi, nato nel ’16 che tornato dalla Russia scrisse e divenne l’inviato di punta del “Corriere della Sera”, Peppino Prisco era stato semplicemente «Il bambino. Così mi chiamavano in Russia, durante le undici vittoriose battaglie dell’avanzata all’indietro, io che ero nato nel ’21. E a dire la verità, questo mi scocciava un po’!». Non serbava certo rancore però, al punto che fece di tutto per far pubblicare il libro di Bedeschi, proponendolo a 16 case editrici, dalle quali confessava «è stata forse la prima e l’unica volta che presi tante porte in faccia». Chi l’ha dura la vince e l’indomito Prisco vinse e convinse Ugo Mursia a pubblicare Centomila gavette di ghiaccio che uscì nel 1963. Un bestseller alla faccia di tutti i megaeditori
che lo rifiutarono: vendette 1 milione e mezzo di copie e diede il via a un filone che nel breve periodo contò almeno 500 titoli. A cominciare dal milanista Angelo Rizzoli, la vendetta del “perfido” Peppino si consumava alla domenica con sorrisini e sfottò dalla tribuna d’onore di San Siro. Ironia sorridente quella dell’Avvocato dell’Inter, ricorda suo figlio Luigi: «Pianse solo quando a guerra finita, gli recapitarono tutte in una volta le lettere che suo padre gli aveva spedito al fronte». Gli aveva scritto tutti i giorni papà Luigi, pregando per lui, affinché fosse tornato presto a casa. Un ritorno benedetto dal cielo: «C’era Gesù, tra noi, nelle trincee del Don a tenerci compagnia nel gelo. Se no di che saremmo vissuti, se neppure lui ci avesse parlato nel silenzio della steppa?». La fede cristiana la confessava all’amico don Carlo Gnocchi, che non smise mai di ringraziare «per tutto quello che hai fatto per i nostri giovani, per gli alpini, per l’Italia, per i suoi e per i nostri mutilatini». Un combattente il Peppino, idolo assoluto della Curva Nord del Meazza, che appena toglieva la toga, dopo una giornata estenuante passata a Palazzo di Giustizia, per lui c’era solo una creatura che poteva incantarlo, l’Inter. Un’amore pazzo e viscerale, a tratti quasi da ultrà in giacca e cravatta, dispensando celeberrimi slogan da consegnare ai posteri, come: «Io tifo per l’Inter e per tutte le squadre che giocano contro Milan e Juve». Oppure «Il Milan è finito in B due volte, la prima pagando, la seconda a gratis», e ancora: «Quando stringo la mano a un milanista me la lavo, quando la stringo a uno juventino mi conto le dita». Il suo ruolo deputato: l’Avvocato contro il “Diavolo”. Ma anche l’Avvocato nerazzurro contro l’Avvocato bianconero Gianni Agnelli, al quale mandava a dire che «la Juventus è una malattia che purtroppo la gente si trascina fin dall’infanzia». Frecciate al “Veleno”, stile Benito Lorenzi, ma zuccherate da risatine sardoniche che non lo fecero mai odiare dalle tifoserie avversarie. Anzi. Il rossonero sfegatato Diego Abatantuono alla notizia della morte dell’Avvocato interista chiosò con encomio: «Noi del Milan un Prisco non l’abbiamo mai avuto». Lo juventinologo Giampiero Mughini, in riferimento ai giorni torridi dell’estate 2006, quella di Calciopoli, con rimpianto ammise: «Prisco avrebbe smorzato tutte queste polemiche con una battuta delle sue». Ed è quelle che mancano oggi, in questo calcio fatto di pessime comparse e rarissimi primattori. Prisco è stato un mattatore, un fine intellettuale prestato al basso volgo del bar sport. Un antagonista del Palazzo del calcio in cui entrava e usciva come dal foro, da irriverente tra gli irregolari. Più “Fenomeno” dell’amato Ronaldo (il brasiliano), un Leo Longanesi, in maglia nerazzurra. E mentre l’omnibus romagnolo disse di se stesso, «sono un carciofino sott’odio», l’Avvocato Prisco salutandoci ricordava: «Mi definisco un ometto di grandi passioni». E la sua più grande, rimarrà in eterno, quella per la Beneamata.