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 2021  novembre 28 Domenica calendario

Che fine ha fatto Sylvie Vartan

Il ettimanale della gauche intellettuale parigina L’Obs ha dedicato un articolo ammirativo a «Merci pour le regard», il nuovo album di Sylvie Vartan. Non era mai capitato: giudicata troppo pop finora la cantante, troppi lustrini. E invece il titolo recita: «Vartan nella sua maestà». Poi, poche sera fa, all’Olympia si esibiva Clara Luciani, 29 anni, la cantautrice francese del momento. E a sorpresa sul palco è salita pure lei, Sylvie, che di anni ne ha 77. Hanno cantato insieme «Comme un garçon», successo che Vartan incise nel 1967 (in italiano, «Come un ragazzo»). Clara ci teneva che fosse accanto a lei. Un’accoppiata improbabile.
Eccola Sylvie. Nata in Bulgaria, figlia di esuli fuggiti, è una delle ultime dive dello show biz francese. Non si è fermata mai: «Ho passato la mia vita sui palcoscenici – racconta -, da quando ero adolescente». Vive tra Los Angeles e Parigi, iperattiva, debordante. Ma da un certo punto di vista è una «ritrovata», perché il nuovo album è il primo con canzoni originali dal 2011. E sono state composte dagli autori più in voga della canzone francese, come Léonard Lasry e la giovanissima Clara Luciani. Ormai Vartan piace anche agli intellettuali: «Sono brani cinematografici: pezzi di vita, storie d’amore. Ho già dato dei concerti in un teatro a Parigi. È il luogo adatto, perché sono canzoni intime e le devo interpretare come se fossi un’attrice».
Per tanti italiani lei resta solo un’apparizione elegante in bianco e nero, intravista una sera d’estate a Techetechetè, mentre balla e canta, col suo accento francese, in un vecchio show della Rai. Ma la vita di Sylvie Vartan non si fermò a quegli spettacoli del sabato sera, come Doppia Coppia, tra il 1969 e il ’70. Riavvolgiamo il nastro di una vita. Aveva otto anni quando fuggì con la sua famiglia da Sofia. «Persi una certa innocenza. Su quel treno che partiva, capii tutto. Da allora diventai più pensierosa, riflessiva, come un’adulta. Il mio povero nonno ci salutava dalla banchina. Morì poco tempo dopo».
A Parigi, con papà, mamma e il fratello Eddy a vivere in una stanza. Ma sereni, uniti. Eddy si lanciò nella produzione musicale. E a 17 anni, in maniera inaspettata, lei divenne famosissima con la sua prima canzone, «Panne d’essence». Nel 1964, a vent’anni, si esibirà all’Olympia con i Beatles, all’inizio del loro successo. Dopo i concerti se ne andavano a ballare nei club di Parigi fino a notte fonda («Poteva essere la mia band, ne abbiamo anche parlato»). Lei stava già con Johnny Hallyday, morto quasi quattro anni fa, uno dei grandi amori della sua vita. «Era molto sensibile, proprio come me. Ci siamo conosciuti così giovani: io avevo 17 anni, lui 18. Abbiamo scoperto tutto insieme: il nostro legame è stato cimentato dall’amore per la stessa musica e dalla frenesia che ci circondava. Anche dall’amore che la gente provava per noi».
«Avevamo la stessa forma di timidezza – ricorda -. Ma, quando cantavamo, non lo eravamo per nulla. Il palcoscenico per noi era uno sfogo creativo». Alla fine degli Anni 60 e all’inizio dei 70, arrivarono gli show alla Rai. «Venivo a Roma con mia madre e mio figlio David, che allora aveva cinque anni. Ma se ne ricorda ancora. Un giorno si è pure perso… Mentre preparavo lo spettacolo, sono andata a Berlino per un’apparizione in tv. Ho lasciato David con mamma. Vivevamo in una suite all’Hilton. Ma lui è scappato via a bordo del suo triciclo: si è infilato nell’ascensore. Mia madre non se n’è accorta, era disperata. Solo dopo molto tempo lo ha ritrovato nelle cucine. Stava parlando tranquillamente con un cuoco». Con gli italiani dice di condividere una certa sensibilità. «Piango facilmente (ndr, lo dice ridendo, ride spesso durante l’intervista). È molto slavo, ma anche italiano. Siamo così simili. Per la mentalità, il rapporto con la famiglia, il calore umano, l’accoglienza. Ma gli italiani sono più allegri. Da questo punto di vista sono migliori».