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 2021  novembre 28 Domenica calendario

Biografia di Cesare Beccaria

Il 28 Novembre 1794 moriva Cesare Beccaria, filosofo, economista e padre della moderna legislazione penale. Il suo trattato, Dei delitti e delle pene, è conosciuto da tutti, citato da molti e letto da pochi, ma costituisce un momento rivoluzionario nel rapporto tra Stato e cittadino, tra diritto e processo, tra delitto e castigo. Fu l’unico intellettuale italiano dell’epoca a essere studiato e commentato dagli illuministi francesi, ispirando a Voltaire alcune tra le pagine più incisive in materia criminale. In questa delicata disciplina, fu quello che Galileo e Copernico furono per la scienza e l’astronomia.
LA VITA
Era nato a Milano il 15 Marzo 1738 da nobile e ricca famiglia. Si sposò a 22 anni contro la volontà del padre che lo diseredò. Generò quattro figli: la più grande, Giulia, sarebbe diventata la madre di Alessandro Manzoni. Rimase vedovo nel 1774, ma come Gertrude, la madre di Amleto, non portò a lungo il lutto. Dopo 40 giorni si fidanzò con Anna dei Conti Barnaba Barbò, e dopo altri 40 si rimaritò: mors omnia solvit. Era di temperamento volubile e scostante, che rasentava la malinconia, e forse da questa inclinazione trasse l’energia reattiva che ispirò i suoi scritti magistrali. Assomigliava a Voltaire nel ragionamento e a Rousseau nel carattere.
Il libro che lo rese famoso fu pubblicato nel 1764. A quel tempo i delitti e le pene erano conformi alla ruvidezza dei costumi e al bigottismo delle idee: due fortezze inespugnabili che i philosophes riuscivano appena a scalfire. I parricidi, le rapine, e le violenze in genere erano superati in crudeltà soltanto dalle sanzioni previste dalle leggi, che costituivano un variopinto catalogo delle fantasie più perverse. I nobili e pochi altri privilegiati subivano la decapitazione, peraltro spesso prolungata da un colpo impreciso di un boia impreparato: la testa restava attaccata al busto e si doveva tagliarla con un coltellaccio. Furono queste pratiche insieme maldestre e brutali che ispirarono al dottor Guillotin l’umanitario strumento che assicurava una morte rapida e, si diceva, indolore. Ma per il popolo comune la condanna era generalmente eseguita davanti a un pubblico compiaciuto e morboso, e prolungata con sapienza: dopo accurate torture, comprendenti il piombo fuso, l’eviscerazione progressiva, la flagellazione e le tenaglie roventi, il condannato poteva essere squartato o bruciato. Negli Stati Pontifici il mazzolaio rompeva la testa del malcapitato con un grosso bastone, e non sempre ci riusciva al primo tentativo. Quanto alle indagini, erano spesso assistite dalla tortura. Venezia conosceva la stanza del tormento: una corda per appendervi l’indagato e una sedia per lo scrupoloso verbalizzante. Negli altri Stati la Questione ordinaria, che poteva diventare Straordinaria, cioè quasi fatale, comprendeva la ruota, l’ingestione forzata di liquidi, e altre pratiche che la decenza ci sconsiglia di citare. Esse sono ampiamente documentate nei vari musei di criminologia, come monito salutare agli attuali nostalgici del buon tempo antico che predicano di vivere nel peggiore dei mondi possibili. Quando esistevano i cosiddetti valori – e pure le mezze stagioni giudici, sbirri e popolo godevano delle sofferenze altrui come belve sanguinarie.

LA RIBELLIONE
Fu contro queste pratiche brutali che Beccaria si ribellò. Lo fece per motivi umanitari, ma anche logici e utilitaristici. La pena di morte sostenne – è inammissibile, perché non rientra nel contratto sociale stipulato dai cittadini con lo Stato, che comprende la cessione dell’esercizio di alcuni diritti, ma non quello della vita. Ma è anche inutile e dannosa, perché eccita alla crudeltà senza prevenire il delitto. È meglio conclude – mandare l’assassino ai lavori forzati a vita, trasformandolo in una «bestia di servigio che ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa». Non è propriamente, come si vede, un perdonismo buonista, e oggi Beccaria sarebbe considerato un reazionario forcaiolo. Quanto alla tortura, questa va abolita, in quanto fonte di inevitabili errori giudiziari: il robusto colpevole può resistervi e farla franca, mentre il debole innocente cedendo al dolore confessa colpe insistenti. Anche qui, prima ancora del sentimento della pietà parlava la ragione della convenienza. Per gli stessi motivi il rigoroso filosofo si oppose alla limitazione del porto d’armi, e ritenne l’autodifesa non solo sempre legittima ma necessaria: le leggi che limitano il possesso di armi – scrisse – «peggiorano la condizione degli assaliti, migliorano quelle degli assalitori e accrescono gli omicidi, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati». La motivazione razionale è che se il cittadino cede allo Stato l’esercizio di questo diritto in cambio della protezione, e questa viene a mancare, il cittadino se lo riprende e si difende da solo.

LE CONSEGUENZE
L’effetto di questo trattato fu immenso sotto il profilo culturale ma scarso sotto quello legislativo. I lettori favorevoli furono molti, le riforme poche. Soltanto il granduca Leopoldo di Toscana abolì la pena di morte, peraltro ripristinata poco dopo dal suo successore. Gli altri preferirono distinguere il principio dalla necessità. Robespierre aderì entusiasticamente alle tesi del Beccaria, salvo mandare alla ghigliottina migliaia di parigini in attesa che la Virtù repubblicana fosse ripristinata dopo l’eliminazione dei suoi perfidi nemici. Non fu il solo. Sulla legittimità della pena di morte, come in tante altre cose, anche gli intelletti più fermi hanno seguito questa via contraddittoria. 

RAPPRESAGLIE
Oscar Luigi Scalfaro lo fece da magistrato, chiedendo la fucilazione di alcuni repubblichini accusati di rappresaglie antipartigiane. E Sandro Pertini approvò l’esecuzione, in nome di un fantomatico tribunale del popolo, di Benito Mussolini che fu sommariamente eliminato in circostanze ancora oggetto di discussione. I giudici di Norimberga furono unanimi nel condannare, e nell’impiccare, una dozzina di gerarchi e militari nazisti, mentre Gran Bretagna e Francia continuarono a usare il cappio e la ghigliottina fino agli anni sessanta. La Chiesa ne ha per millenni sostenuto la conformità ai precetti divini, e del resto le Sacre Scritture impongono la lapidazione anche per comportamenti, soprattutto di carattere sessuale, che oggi sono leciti o addirittura esaltati. In conclusione, Beccaria fece bene a chiedere l’abolizione della pena capitale. Ma ci sarà sempre qualcuno che, invocando circostanze straordinarie, troverà l’eccezione che conferma la regola.