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 2021  novembre 26 Venerdì calendario

Il rotirno dei Deep Purple


«Questa non ve l’aspettavate eh?». In effetti no. I Deep Purple tornano con un disco di cover, proprio così, proprio loro che per 53 anni, dicesi cinquantatrè, hanno sempre pubblicato canzoni nuove diventando i padri dell’hard rock insieme con i Led Zeppelin e i Black Sabbath. «Adesso pubblichiamo Turning to crime, che raccoglie brani di Bob Dylan, The Yardbirds, Cream e altri che tutti noi abbiamo purplizzato, li abbiamo trasformati alla nostra maniera», dice Ian Gillan, 76 anni, chiamatelo pure maestro perché lo è stato per almeno due generazioni di cantanti.
Nati nel 1968 nella microscopica Hertford, autentico dormitorio per chi allora lavorava a Londra, hanno cambiato pelle più volte, hanno attraversato litigi (mediamente ogni 5 anni) e lutti (il gigantesco Tommy Bolin, ad esempio, morto per overdose) ma oggi sono rimasti gli ultimi on the road, gli ultimi a fare ora come allora: disco, tournèe, disco e via suonando. Cento milioni di album venduti. Un marchio di fabbrica più imitato della Settimana Enigmistica. Una coerenza che oggi te la scordi. «Eravamo felici allora perché avevamo vent’anni, ma lo eravamo anche a cinquanta e lo siamo pure ora che abbiamo trascorso più tempo insieme sul palco che con le nostre mogli», conferma la voce che con Child in time, anno di grazia 1970, ha insegnato come accompagnare la chitarra fino all’orgasmo musicale in una sorta di suite potentissima e malinconica. Il trionfo del volume alto, dei virtuosismi, delle Fender Stratocaster scatenate negli assoli. Uno schiaffo rumoroso alla musica leggera. Per capirci, nel 1972 in Italia Nicola Di Bari vinceva il Festival di Sanremo e i Deep Purple pubblicavano Made in Japan, registrato a Osaka praticamente in presa diretta con la versione dal vivo di uno dei brani più famosi di tutti i tempi: Smoke on the water, quella con il padre di tutti i riff di chitarra, ta ta taaa, quella che tutti i «boomer» da ragazzi hanno provato a suonare almeno una volta ma nessuno mai con la stessa sporca, puntuale irruenza di Ritchie Blackmore. «Però è difficile catalogarci, noi non siamo soltanto rock».
Dopotutto ha ragione.
All’origine i Deep Purple erano un contenitore di influenze musicali così disparate che Ian Gillan ci deve pensare un po’: «Avevamo ascoltato e studiato Beethoven e Chopin ma anche Jerry Lee Lewis e Buddy Rich e pure lo skiffle e le grandi swing band. Eravamo tutto e niente. Ascoltate Anyone’s daughter dal disco Fireball del 1971. Che cosa eravamo? Boh. Avanguardia? Ancora oggi non saprei rispondere». Ian Gillan parla da casa sua, la voce è roca («Ma non ho nulla eh», precisa perché non si sa mai), ma i ricordi sono nitidi. «Nel 1969 eravamo hard rock, certo. Ma avevamo vent’anni, come fai a non essere rock a vent’anni». E lui cantava come pochi: «E oggi la voce mica mi è cambiata tanto. È un dono del signore. Nonostante l’età, tengo ancora al livello che mi piace tenere e non faccio compromessi. Certo, non posso più giocare a pallone, ma il fiato è rimasto forte come sempre». Al limite potrebbe usare l’autotune. «Scusi cos’è?». Sa quel software che può manipolare la voce coprendone i difetti, oggi è un must per rapper, trapper e aspiranti cantanti: «Non ne ho la più pallida idea. Io canto con la mia, di voce. E guai a chi la tocca». Va bene, ma fino a quando? «Beh di certo non potremo andare avanti per sempre. Ma finché avremo le forze, saliremo sul palco. Poi mica potremo suonare in ospedale e ce ne faremo una ragione».
In attesa di quel (lontano) giorno, i Deep Purple hanno infilato in Turning to crime le canzoni che si sono portati dietro in tutti questi decenni. «Siamo partiti da centinaia di brani e li abbiamo selezionati fino a questi dodici». Uno è un medley che contiene anche Dazed and confused dei Led Zeppelin: «Strano vero? Negli anni ’70 i fan ci consideravano così diversi e lontani. Ma alla fine di questo medley c’è anche Gimme some lovin’, un vero inno al divertimento e quindi divertiamoci». In poche parole, Ian Gillan è l’immagine del rockettaro perfetto, quello che ha fatto la storia della musica, ha viaggiato e visto e vissuto la qualunque e a 76 anni non ha alcun rimpianto. Anzi no, uno ce l’ha: «Quand’ero giovane sono andato all’Università soltanto per sei mesi». Nessun problema: la laurea l’ha presa lo stesso. In rock