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 2021  novembre 26 Venerdì calendario

Come ti vendo il libro con le giornate anti-violenza

Con tutte queste giornate nazionali e internazionali, converrete, non ci si raccapezza più. Ormai vanno a tre o quattro alla volta, non so bene se oggi sia la giornata nazionale del diritto del gorgonzola a percepirsi taleggio, quella internazionale del diritto a non abortire con un ferro da calza, quella mondiale per la vaccinazione dei fenicotteri romani dal colera che facilmente potrebbero prendersi dall’immondizia. Pari sono: che sia la giornata nazionale d’una stronzata che può allegramente accontentarsi d’una giornata nazionale, o quella d’una questione importantissima che avrebbe bisogno di ben altro, sempre compleanni che Facebook non ti ricorda sono, e ciò rappresenta un problema.
Per esempio quando sei una cancellettista, ovvero una che di mestiere vende il femminismo su Instagram e in cambio ne ricava prodotti in omaggio, collaborazioni con multinazionali, e soprattutto il diritto a venire presa sul serio (la giornata del diritto a venire prese sul serio anche quando non sei all’altezza del compito credo sia lo stesso giorno della sera dei miracoli).
Per esempio quando pianifichi l’uscita d’un libro. Ieri, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il cancellettismo si divideva in tre grandi filoni.
Quelle senza libro in uscita (incredibilmente ci sono, sull’Instagram, tre o quattro ancora senza un prosciutto da piazzare: le guardo con l’interesse con cui osservo certi reperti rimasti integri a Pompei). Hanno fatto cose varie: il mio preferito è un account che ha postato una lista di nomi di donne ammazzate dai compagni precisando d’essere spiacente di sprecare in una giornata così affollata quell’installazione. Cioè: hanno scritto dei nomi su Instagram, scelto i colori della grafica, spinto «post», e gli sembra d’aver scolpito il Ratto di Proserpina (Bernini peraltro apologeta del femminicidio, cos’aspettano a chiedere la distruzione delle opere).
Quelle col libro a tema appena uscito, e si sa che quando hai la vaschetta di prosciutto appena affettato finisce come in quella ballata in cui lui la vedeva scritta su tutti i muri: ogni canzone ti parla del tuo prosciutto. E quindi la tua giornata su Instagram si svolge stigmatizzando l’indifferenza per la violenza sulle donne, lo schifo di questa giornata-contentìno, e raccontando un’Italia immaginaria dove «non ci ascoltano, dicendoci che a “quelle perbene” non succede». Vorrei incontrare uno che ha la pazza idea di dire una cosa simile nel 2021, o anche solo l’ardire di pensarla: secondo me non arriva neanche alla fine della parola «perbene» prima di venire decapitato sulla pubblica piazza. Ma d’altra parte capisco la bottegaia di turno: se dicessimo che la situazione è migliore di quanto sia mai stata, che bisogno avremmo d’acquistare il suo prosciutto – cioè, volevo dire: il suo libro necessario.
E poi abbiamo il terzo filone, che è la cosa di cui volevo parlare fin dal principio – ci ho messo solo cinquanta righe di premesse, poteva andar peggio. Quelle che hanno calcolato male i tempi e hanno sì il libro appena uscito, ma è un libro che parla d’altro. E quindi, come si fa a ricordare alle donne che si è amiche delle donne, solidali con le donne, militanti per le donne, ma senza dimenticare l’esito commerciale del proprio prosciutto? La benintenzionata compare a mezzanotte meno un quarto, ad annunciare che c’è questa giornata, ma lei non se la sente proprio di chiedere al suo pubblico di devolvere soldi alle buone cause, ai rifugi per donne maltrattate, ai bisogni di quelle che non possono mollare il marito violento perché la pubblicistica cancellettista ha detto loro per una vita che se non volevano lavorare e volevano fare le madri era loro diritto e nessuno doveva osare contestarglielo, e il risultato è che ora le tapine non possono mollare lo stronzo perché non hanno un reddito a renderle indipendenti (tutta questa tirata è roba mia: la benintenzionata non giudicherebbe mai le scelte delle altre donne, specie se sono compratrici di prosciutto).
Dunque compare e dice che non se la sente di chiedere loro di spendere *altri* soldi, visto che già hanno il suo libro da comprare. E quindi sapete cosa facciamo? Che se il prosciutto lo comprate tra un quarto d’ora, e nelle successive ventitré ore e tre quarti, se lo comprate nella ricorrenza giusta (cioè se lo compravano ieri), io devolvo tutto il prezzo di copertina a un qualche centro antiviolenza.
Almeno, credo intendesse la prima persona del futuro semplice di «devolvere», quando ha detto (e scritto) «devorrò»: sarebbe discriminatorio pretendere che pubblicassero libri solo coloro che sono state attente alle elementari (presto una giornata nazionale per il diritto di fare coi verbi un po’ quel che ti pare senza ch’essi se ne abbiano a male).
Tuttavia il non saper coniugare «devolverò» non è il problema principale, nella promessa.
Il libro in questione costa 16 euro e 90. Dei quali una parte vanno all’autrice (diciamo il 15 per cento?), e il resto se ne va tra editore, distribuzione, stampatori, librai, eccetera. Quindi, se lei devolve (devuole?) il restante 85 per cento, vuol dire che tutti rinunciano ai loro profitti. Potrebbero rifiutarsi di rinunciare, di fronte al ricatto della buona causa? E noi possiamo rifiutarci di farci ricattare, e possiamo ieri aver comprato qualsivoglia altro libro? E che persone di merda siamo, in quel caso?
Oppure distributori e librerie eccetera fatturano quel che devono, e la differenza ce la mette lei (o l’editore, da lei ringraziato)? E, in quel caso, non potrebbero lei o l’editore fare un assegno senza il ricatto dell’acquisto? Non potrebbe la signora devolvere (devolere?) una frazione di quel che le dà la nota ditta di mutande d’acrilico per sponsorizzarle e farne le mutande preferite dalle donne pensanti, senza mettere di mezzo gli acquisti altrui?
No che non potrebbe. Perché, se una ci rimette dei soldi, deve almeno guadagnarci in successo percepito. La settimana scorsa il libro ha venduto quattrocentoquarantacinque copie. Se ieri ne avesse vendute altrettante in una giornata, la settimana prossima sarebbe sicuramente in classifica. È un prezzo ben conveniente, settemilacinquecentoventi euro e mezzo da devoluzionare o come si dice in cancellettese, in cambio del successo percepito.
È, non a caso, il metodo che sta seguendo il marito della Ferragni, miglior bottegaio in circolazione. Se vi accattate il disco do «una parte» (almeno lui non dice che darà il lordo) dei profitti alla tal associazione che si occupa di bambini malati. Se vi accattate la scultura che sta sulla copertina del disco diamo *tutto* il ricavato ai bambini malati. E col disco vi regaliamo anche una maglietta, un giochino, una rava, una fava. Certo, ci rimetteremo (ci rimetterà lo sponsor: c’è sempre uno sponsor, per le buone cause), ma cosa sono quei quattro spicci che ricaverei da un disco (e che posso farmi dare decuplicati da un qualunque produttore di mutande acriliche) in cambio della soddisfazione di vedere in classifica un disco che non ci finirebbe mai con la sola spinta propulsiva della voglia del pubblico di sentire le mie canzoni?
Col ricatto dei bambini malati, invece. Col ricatto delle donne maltrattate, invece.