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 2021  novembre 24 Mercoledì calendario

Il tesoro dei Savoia nascosto in Bankitalia

Lo scorso 5 giugno è stato il settantacinquesimo anniversario. Uno scrigno pieno di gioielli giace sepolto nel caveau di Bankitalia da ben oltre mezzo secolo senza che nessuno ne rivendichi la proprietà. È il 5 giugno del 1946, il referendum ha appena decretato la fine della monarchia, quando la cassa centrale della Banca d’Italia prende in consegna un tesoro registrato sotto il nome «gioie di dotazione della Corona del Regno». A riceverlo in custodia è l’allora governatore della Banca, Luigi Einaudi. L’economista, che poi sarebbe diventato, ironia della storia, il primo presidente della Repubblica, è colui che si fa carico di incontrare l’ultimo Re d’Italia, Umberto II, per formalizzare il passaggio di consegna dei gioielli.


Cosa c’è nello scrigno
È un cofanetto rivestito in pelle a tre piani e protetto da 11 sigilli (5 del Ministero della Real Casa, 6 della Banca d’Italia) dove sono custoditi 6.732 brillanti e 2 mila perle di diverse misure montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Le pietre sono di peso e taglio diverso per un totale di quasi 2 mila carati. Tra i gioielli figurano, per esempio, un raro diamante rosa montato su una grande spilla a forma di fiocco, così come i lunghi collier di perle indossati dalla regina Margherita. Einaudi, nei suoi diari, annota alcuni dettagli sul contenuto del cofanetto: «Vi è il celebre diadema della Regina Margherita, portato poi dalla Regina Elena. Vi sono altri monili, fra cui quelli della principessa Maria Antonia. Trattasi in ogni caso di gioie le quali hanno avuto una storia particolare nelle vicende di Casa Savoia».


Appartengono allo Stato o agli eredi?
Trascorsi tre quarti di secolo resta un mistero italiano il perché tanto tempo non sia stato sufficiente per stabilire, una volta per tutte, la proprietà di quelle gemme. Nel verbale di consegna restituito al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, c’è scritto: «Si affidano in custodia alla cassa centrale, per essere tenuti a disposizione di chi di diritto, gli oggetti preziosi che rappresentano le cosiddette gioie di dotazione della Corona del Regno». Una formula volutamente vaga che accontenta Umberto II e lascia spazio alla possibilità che, come scrive Einaudi, quei gioielli spettino alla famiglia Savoia e non allo Stato. Nel corso dei decenni gli eredi del Re di Maggio non li hanno mai rivendicati nel timore che una richiesta di restituzione alimentasse un’ondata di risentimento, tanto più visto che i maschi di casa Savoia fino al 2003 non hanno potuto rimettere piede in Italia. In cuor loro però sono convinti che debbano essere restituiti, poiché, almeno una parte dei gioielli, erano regali e acquisti personali dei vari membri di casa Savoia e non beni assegnati al re per l’adempimento delle sue funzioni, posti cioè al servizio dell’ufficio del sovrano. «L’attuale premier Draghi, quando era governatore della Banca d’Italia, in occasione di una nostra conversazione, aveva dato la sua disponibilità a prendere in considerazione la vicenda. Poi lui stesso ha cambiato ruolo. Forse con questo governo il dialogo potrebbe essere più semplice», osserva Emanuele Filiberto di Savoia, nipote di Umberto II, che comunque aggiunge: «Mio nonno scrisse a chi di diritto, e ad avere quel diritto sono gli eredi. I gioielli sono di casa Savoia e ci dovrebbe essere una restituzione, poi, come ho sempre ripetuto, andrebbero esposti in Italia perché fanno parte della storia italiana».


Decide la presidenza del Consiglio
Sul versante opposto nessuna presa di posizione è stata assunta da parte degli innumerevoli governi che si sono susseguiti dal 1946. Nella Costituzione, la tredicesima disposizione finale e transitoria specifica: «I beni esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli».
La confisca, scattata nel dopoguerra, su quasi tutto il patrimonio dei Savoia (beni mobili e immobili), però non è mai stata esercitata su quei gioielli. Per un lungo periodo il cofanetto custodito in Via Nazionale è stato sottoposto anche a un vincolo della Procura della Repubblica di Roma: per un’eventuale apertura serviva il via libera dei giudici. Nel 2002 questo vincolo è stato rimosso.
Nel 2006 il deputato piemontese Raffaele Costa, scrive all’allora governatore di Bankitalia, Mario Draghi, e chiede il prestito dei gioielli in occasione di una mostra durante le Olimpiadi di Torino. Il governatore a sua volta si rivolge alla presidenza del Consiglio, in quanto organo deputato a dare il via libera, e soltanto dopo risponde con una lettera a Costa. «In seguito all’interessamento della presidenza del Consiglio dei ministri, la Procura della Repubblica di Roma ha affermato il venir meno dell’indisponibilità che non consentiva né l’esibizione dei gioielli, né l’avvio delle procedure per la loro riconsegna», spiega la lettera che, tuttavia, rammenta la consueta formula: «La Banca d’Italia attende dal segretariato della presidenza del Consiglio dei ministri indicazioni sui comportamenti da tenere da parte dell’Istituto in qualità di depositario». Indicazioni che ad oggi non sono mai arrivate, tarpando le ali ai musei e curatori di mostre che nel tempo si sono candidati per accogliere ed esporre i beni della corona italiana.


Quanto valgono quei gioielli?
Una stima è difficile. Dal giorno della consegna del cofanetto, rivestito in pelle, una sola volta è stato possibile ispezionare e inventariare il contenuto. Nel 1976 la Procura di Roma, in seguito a una bizzarra storia che circolava in merito alla manomissione e al trafugamento di alcune spille appartenenti ai beni della corona, aveva deciso di rompere i sigilli. Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso qualche anno più tardi dalla mafia, aveva disposto un’ispezione per constatare che tutto fosse in ordine, la verifica si era rilevata così un’occasione per fare catalogare e inventariare i gioielli dalla maison Bulgari. Dalla perizia della Procura risultano, come detto, 6.732 brillanti e 2 mila perle di diverse misure montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Le perle, in assenza di luce e aria, è probabile che siano in buona parte morte o annerite, ma all’epoca il gioielliere romano aveva valutato le pietre e le perle, escludendo quindi le montature e il valore storico, in almeno 2 miliardi di lire, circa 18 milioni di euro attuali secondo la rivalutazione Istat. Il valore commerciale è però potenzialmente 15 volte maggiore. In base alle valutazioni applicate nelle aste di Sotheby’s per i gioielli appartenuti a regine e principesse, il contenuto del cofanetto potrebbe valere attorno ai 300 milioni. Infatti lo scorso maggio a Ginevra è stata battuta all’asta una piccola tiara appartenuta alla moglie di Amedeo I di Savoia per 1,6 milioni di dollari.


Il mistero della mancata esposizione
Un patrimonio che potrebbe giustificare un museo o un’esposizione permanente sul modello di quanto avviene, per esempio, nel Regno Unito, dove i celebri gioielli della Corona concorrono a rendere la Torre di Londra, che li ospita, uno dei siti più frequentati dai turisti: circa 3 milioni di visitatori paganti all’anno nel periodo precedente la pandemia.
Per le gemme dei Savoia sembra non arrivare mai il tempo per essere esposte, così come capitato per altre ragioni alla collezione di statue e marmi antichi appartenente ai Torlonia, sepolta in un seminterrato per oltre mezzo secolo. Resta il fatto che dal 1946 a oggi non è mai stato deciso chi abbia diritto a ritirare il cofanetto depositato 75 anni fa. Quanto tempo deve impiegare un Paese per stabilire la legittima proprietà di un bene a un erede o, eventualmente, restituirlo alla collettività in modo che possa beneficiarne? La stessa Banca d’Italia, con tutti gli spazi che ha, potrebbe allestire un museo aperto al pubblico.