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 2021  novembre 21 Domenica calendario

Biografia di Marco D’Amore raccontata da lui stesso

Lei, volendo, è un comico. “Eh, lo so. Ho iniziato così, in tournée con Toni Servillo: ho girato per quattro anni con il ruolo di ‘mamo’; restavo quindici minuti in scena ma veniva giù il teatro. Era quella la mia propensione”.
Dire e fare; credere ed essere; volere e a volte sognare; immaginare e realizzare. Con un però: a Marco D’Amore non è andata male. In otto anni è diventato una delle maggiori maschere della serie prima, del cinema dopo: lui è l’Immortale di Gomorra (Sky Original prodotto da Cattleya) ed è riuscito a far suo un nome, Ciro, tra i più impersonali perché tra i più comuni di Napoli.
Ora Ciro (l’Immortale) è lui. E da ieri, dopo otto anni di camorra, morti, sparatorie, droga, soprannomi, ritorni e periferie (non solo fisiche) è in onda l’epilogo, la quinta e ultima stagione di una serie entrata nella storia.
Dov’è finita la sua propensione comica?
Resta, anche un secondo prima di un ciak sul set di Gomorra: quella di esorcizzare e dissacrare è una mia propensione alla vita; però la comicità è prima di tutto “tempo”, poi arriva l’arguzia di trasformare le parole.
Quel tempo lo ha allenato?
A quindici anni ho iniziato con una sorta di filodrammatica napoletana e ci cimentavamo con i testi di Scarpetta, di Eduardo, di Ferdinando Russo, di Samy Fayad. Lì usciva fuori la tecnica napoletana.
Quindi a scuola scatenava le risate.
La propensione alla comicità non piaceva agli insegnanti.
L’ironia quanto l’ha salvata?
I miei tempi del liceo erano particolari. Da una parte è cresciuta una classe di persone importanti, e tra queste penso a Roberto Saviano o a un altro di noi che è diventato professore alla Sorbona. Ragazzi impegnati politicamente. Però quelli erano anche gli anni in cui Casal di Principe o Marcianise erano nel boom: quella provincia nel weekend si riversava da noi a Caserta.
E…
Accadeva di tutto, il far west: per uscire e tornare a casa integro dovevo essere uno sveglio; (pausa) insomma, vivevo su quei binari e in qualche modo l’ironia mi ha salvato.
Saviano era ironico?
L’ho sempre visto come molto serio, molto preso, molto impegnato.
Era già Saviano.
Sì, con una grande differenza: aveva i capelli lunghi fino al culo; (sorride) lo chiamavamo “l’indiano” e questo aspetto selvaggio lo rendeva ancor più eroico.
Anche lei capellone.
Ricci legati in una coda: a Milano, quando frequentavo la Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, ero veramente un bohémien.
Quanto bohémien?
Proprio tanto. Dormivamo in sette in una casa. Quando dormivamo. Ci nutrivamo delle merendine della macchinetta e con uno stratagemma mettevamo 50 centesimi e ne prendevamo cinque; vabbè, è una stagione passata.
Sette anni fa con Enrico Fierro l’abbiamo intervistata a Scampia: iniziava la saga di Gomorra.
Per la prima volta mi misuravo per otto mesi con la macchina da presa: lì ho iniziato a capire chi ero, in cosa ero impegnato e soprattutto a gestire le espressioni, a veicolare le emozioni.
Scuola di vita.
Come difficilmente un attore o un regista possono avere nel corso di una carriera: otto ore al giorno per tutti questi anni è un bagaglio incredibile di esperienza.
Il suo provino.
In città non si parlava di altro, tantissimi colleghi si erano candidati, ma non avevo alcuna intenzione di entrare: è stata la mia agente a insistere.
Come mai?
Ero in teatro con Toni (Servillo), poi in una pellicola molto bella, Una vita tranquilla, e Matteo Garrone, proprio sul set di Gomorra (il film) aveva definito il mio viso come troppo gentile.
Ha un viso gentile.
(Sorride consapevole) Eh, sì…
Invece.
Chiama Stefano (Sollima) dopo aver visto Una vita tranquilla: “Mi vieni a trovare?”.
Il provino.
Mi presento tranquillo, con i capelli, il mio peso del tempo e trovo come sparring partner Salvatore Esposito (Genny): sono stato il primo attore scelto e intorno a me, alla mia età, hanno organizzato l’intero cast.
Il primo ciak.
Ho scoperto il metodo-Sollima: “Ora tocca a voi”.
Cioè?
Ci siamo misurati con tutte le scene, anche le più action, tipo lanciarsi da una barca; (cambia tono) ho imparato a montare e smontare qualsiasi arma da fuoco.
Danni fisici?
Due volte.
Paura?
Quella no, qualche effetto collaterale l’avevo previsto.
Divertito?
Da morire; in una scena in Spagna, dentro una villa meravigliosa, le due vetrate dovevano infrangersi sotto i colpi dei kalashnikov: in quella scena in realtà mi sono totalmente ribaltato; (sorride) per fortuna al tempo ero abbastanza atletico.
Ora sa riconoscere le armi?
Sì. So cos’è una Glock, una M12… (e l’elenco è lunghissimo).
L’hanno mai affascinata?
Mi fanno cagare loro e tutti quelli propensi al porto d’armi.
Sette anni fa ci confidò: “In alcune scene mi sono sentito male”.
(Ci pensa) Nella prima serie Salvatore recitava la parte del figlio incapace del boss, e quando impugnava la pistola non la puntava dritta, ma girata: fuori dai ciak arrivavano i ragazzini che provavano a spiegargli quale era la tecnica corretta. E quella consapevolezza non arrivava dai film o dalle fiction, ma dalla quotidianità: fu doloroso rendercene conto.
Ha imparato a gestire il suo personaggio.
Sono un professionista profondamente latino, con pregi e difetti; (pausa) Stanislavskij, quando veniva a osservare gli attori italiani, si domandava: “Ma questi come possono scoparsi le sarte dietro le quinte e poi salire sul palco e recitare in maniera così sublime?”.
Quindi.
A casa non so neanche chi sia Ciro, perché fa parte di un gioco che si interrompe con l’ultimo ciak della giornata.
Non le restavano neanche le immagini di quei ragazzini?
Più che altro la depressione di vivere quei contesti e la frustrazione di non poterli aiutare. Quella sensazione non è ancora passata; (cambia tono) tutt’oggi mi incazzo quando alcuni politici, e non solo, derubricano Gomorra a mera fiction, perché o non conoscono la realtà o la nascondono.
In questi anni è cambiato il territorio?
Molto: le Vele di Scampia non ci sono quasi più ed è nato un associazionismo attivo.
Anche grazie alla serie?
Innanzitutto per il libro di Roberto (Saviano): è lui ad aver acceso la luce su zone cresciute nell’ombra.
I veri camorristi l’hanno mai fermata?
Chissà quante volte è successo e non solo a Napoli, magari a Milano o a Brescia; ovviamente quelli del mio territorio li riconosco al volo, ho le antenne, ma nessuno di loro mi ha mai fermato per complimenti o accuse, nessun tipo di esaltazione: in qualche modo sanno rispettarti per il tuo lavoro.
In che senso?
Quando giriamo in quei quartieri il primo impatto con noi è legato alla fatica; quasi tutti i giorni ci domandavano: “Ma chi t’o fa fa’?”. Perché pensavano al cinema come un gioco, un divertimento, mentre magari ci alzavamo alle cinque del mattino e giravamo dodici ore sotto la pioggia.
L’impatto con la vera fama.
Grandissimo spavento; (pausa) non vorrei apparire vanitoso o ingrato, ma questa è una parte del lavoro che non mi piace. E ora che sto invecchiando è pure peggio.
Perché?
Per migliorarmi dovrei risultare invisibile, quindi osservare, ascoltare il prossimo, senza l’alterazione legata alla percezione altrui di me; poi trovo spaventosi gli artisti tuttologi, quelli che sentenziano a prescindere, partecipano sempre al dibattito: l’artista dovrebbe parlare con il lavoro.
Torniamo al boom dopo Gomorra.
Penso alla prima conferenza stampa quando a un certo punto una giornalista si complimentò con me: “Bravo, parli bene l’italiano”; comunque subito dopo il lancio mi sono ritirato nel mio convento.
Qual è?
Quello dei frati cappuccini della mia famiglia: hanno ostinatamente preservato la nostra normalità. E ho continuato a leggere.
Il suo libro di formazione?
(Pausa lunghissima) La trilogia di Fante su Bandini. Poi aggiungo Fenoglio, Pavese e I superflui di Arfelli.
Il lato positivo del diventare celebre.
Su di te si apre uno sguardo più ampio, entri in contatto con alcune realtà importanti, con artisti, attori, registi; da lì quello che proponi viene recepito con una differente attenzione. E poi, soprattutto, ho intercettato i ragazzini: molti di Scampia li ho ritrovati a teatro solo per vedermi. (Sorride) Al Bellini di Napoli ricordo un quindicenne, accompagnato dalla fidanzata, orgoglioso perché per la prima volta aveva indossato una cravatta ed era contento dello spettacolo.
La chiamano più Ciro o più Marco?
Da un bel po’ vince Marco.
Non ne poteva più di “Ciro”?
Invece ero felicissimo, perché non esistevo io, non esistevo come attore, ma solo il personaggio.
Non ha mai temuto di venir schiacciato?
In Italia c’era una strana abitudine nel far corrispondere il personaggio con l’attore; ora questa tendenza sta cambiando anche grazie a un gruppo di attori molto bravi.
Manca l’attore dannato alla Ennio Fantastichini.
Il Novecento è finito: ora il nostro tempo è più menzognero e ipocrita; allora c’era una libertà data dalla necessità di contrastare certe regole. Per fortuna una parte di quella stagione l’ho vista.
Con chi?
Sempre ai tempi di Toni Servillo: quando a sedici anni sono entrato nella sua compagnia, mi sono trovato di fronte personalità come Mimmo Paladino, Tomas Arana o un giovanissimo Paolo Sorrentino; (pausa) quella è la mia storia, sono i miei riferimenti.
Qual è la sua ossessione?
L’indipendenza; essere libero di scegliere cosa voglio dire, come lo voglio dire e con chi. Non voglio più sentirmi circondato da persone che non condividono il mio modo di stare al mondo e la mia visione dell’arte. Dei mestieranti.
Com’era Sorrentino da ragazzo?
Ho l’immagine di lui che prova a convincere Servillo a girare L’uomo in più, e poi quando veniva a vederci a teatro insieme a sua moglie Daniela (D’Antonio); (pausa) mi ha sempre impressionato perché vedevo e sentivo la sua capacità nel competere con Toni; Toni è un essere umano che incute grande soggezione.
Anche a lei?
Mai. Però non riuscivo a dargli del tu, ero abbagliato da lui.
Come ha superato questa distanza.
Un giorno mi ha detto: “Guaglio’, hai rotto”.
È diventato regista. Come si giudica?
Mi piace tantissimo, più che recitare al cinema: lo sapevo da sempre. Ma sul set, coi colleghi, resto un attore: è la mia arma in più soprattutto perché conosco le miserie del mestiere, le depressioni.
Le ha provate?
Certo; poi ho incontrato persone che non hanno capito, altre che hanno svilito il mio lavoro; chi mi ha allontanato, chi non ha compreso il momento di difficoltà: è un mestiere che tocca le corde della pelle.
Cosa l’ha salvata?
Il piacere della sfida.
In cima resta il teatro.
Il palco è il posto in cui si amministra il mio mestiere: è un luogo in cui tutti i fantasmi che sono nella scrittura si manifestano attraverso il corpo.
Come è cambiato in questi anni?
Sono finalmente invecchiato.
In cosa?
Sento spegnersi la forza tellurica che era dentro di me: ora ho maggiore capacità riflessiva (arriva Salvatore Esposito e il tono improvvisamente cambia. D’Amore: “Oggi ho la maglia del Psg”. Esposito: “A me è arrivata quella di Maradona”. “Di Maradona?”. “Eh…”. “Che piezz’ ’e merda”).
Chi era e chi è?
Otto anni fa ero più ingenuo, ma era bello; quell’ingenuità mi permetteva di avere maggiore fiducia rispetto agli altri. Ora quell’ingenuità è stata sostituita da un pizzico di cinismo e disincanto.