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 2021  novembre 21 Domenica calendario

Parla l’artista Tacita Dean

Per entrare nell’arte di Tacita Dean bisogna allenare lo sguardo a rallentare, rifocalizzarsi sui dettagli. Tutto ciò che ha fatto nel mondo scintillante e milionario dell’arte contemporanea, rientrando sotto l’etichetta generazionale degli Young British Artists - Damien Hirst e Tracey Emin tra gli altri – «ma senza sentirsene parte», l’ha fatto in direzione opposta alla spettacolarizzazione. A partire dal mezzo scelto per le sue fotografie e i suoi film: pellicole e carta fotografica fotochimiche sulle quali, in un mondo assediato delle immagini digitali, Dean lavora con la cura e la dedizione che si riserva ai materiali ormai rari.
La incontriamo a Roma, dove la Fondazione Del Roscio ospita fino a febbraio la sua mostra Sigh, Sigh, sigh . Al piano di sopra, la sede romana di Gagosian espone Souvenirs of Time : l’ellisse luminosa della galleria è punteggiata dalle fotografie di Cy Twombly, il grande pittore americano, scomparso nel 2011, che si innamorò di Roma e della classicità sciogliendola nelle sue tele astratte. Sono gli scatti che Twombly realizzò nei suoi atelier in Italia e in America: corridoi, stanze, oggetti che al piano sottostante della Fondazione Tacita Dean cita, in un intimo gioco di mise en abyme .
All’ingresso il visitatore è accolto dall’installazione Gaeta (Fifty photographs plus one) :
una parete composta da immagini scattate nella casa di Cy Twombly sul litorale laziale; in un’altra sala, il film ritratto in 16mm Edwin Parker (vero nome di Twombly) lo racconta nel suo studio americano, in Virginia. Tacita, 56 anni siede in un angolo, accanto a una colonna di cemento. Mentre parla stringe una tazza grigia piena di caffè. Rigirandosi la tazza tra le mani pesa le parole, le fa cadere ognuna al suo posto. Come i segni che Giorgio Morandi tracciava per ricordare l’esatta posizione delle bottiglie prima di dipingerle, immortalati nel film in bianco e nero Still Life , girato da Dean nello studio bolognese del pittore.
A unire Tacita ai suoi maestri è la dedizione alle cose, la ricerca sul mistero della nostra presenza sulla terra. E la capacità, da outsider di successo (nel 2018 Londra le ha dedicato una tripla mostra tra National Gallery, Royal Academy e National Portrait Gallery) di guardare a distanza il circo del contemporaneo.
Per “Gaeta”, la sua serie fotografica su Cy Twombly, ha utilizzato l’ultima carta fotografica Cibachrome sul mercato. Un omaggio al suo maestro?
«Incontrai il lavoro di Twombly quando studiavo in Cornovaglia. Ero nel dipartimento di pittura, ma già allora mi interessava usare la macchina da presa e la macchina fotografica per creare immagini; i miei primi film avevano una connessione con il disegno. Il lavoro di Cy, scoperto sulle vecchie riviste d’arte della biblioteca, e poi con una sua mostra a Londra, mi indicarono la strada. Ho scritto la mia tesi su di lui, e un testo per la Tate ai suoi ottant’anni.
Per Gaeta fotografai il suo studio mentre lui non c’era. Era pieno di oggetti e luce, un privilegio.
Non ho usato il treppiedi per fotografare, ho appoggiato la macchina in giro per la casa e ho scattato. Ne è uscito ciò che mi affascina di Twombly: l’attrazione per gli oggetti, l’eleganza che respiravi in ciò che lo circondava».
Ha citato i suoi esordi nei Novanta, l’epoca degli Young British Artists e del loro impatto dirompente. Oggi alcuni, ad esempio Hirst, hanno quotazioni milionarie. Quanto è cambiato da allora il mondo dell’arte?
«Molto, moltissimo. Oggi fa girare tanto denaro, ovviamente, è un mercato globale. Ma non c’è solo questo. Credo sia più difficile per un giovane artista essere provocatorio. Noi davamo per scontato che vivere facendo l’artista fosse praticamente impossibile. E quindi eravamo più liberi di esprimere esattamente ciò che volevamo».
Si riferisce anche al politicamente corretto?
«Non userei questa espressione, non mi piace, mi fa pensare all’uso che ne ha fatto Trump. Ma sicuramente noto delle forme di autocensura».
Uno dei suoi ultimi film, “150 years of painting”, riguarda due artiste di generazioni diverse, Lucita Hurtado e Julie Mehretu.
Essere una donna e fare arte oggi è più facile? O la distinzione di genere non ha senso?
«Non è esistito un solo momento del mio fare arte in cui io abbia dimenticato di essere una donna. Anzi, quando studiavo la maggior parte degli allievi dell’accademia era donna. Poi quando sono entrata nella scena artistica mi sono accorta che la componente femminile era in netta minoranza. Succedeva qualcosa che le mandava fuori strada.
Che cosa? La maternità, la mancanza di fiducia in se stesse, la mancanza di sostegno da parte dell’ambiente… Oggi la situazione mi sembra più equilibrata».
A proposito di cambiamenti, ha mai pensato di lavorare con il digitale?
«Farebbe questa domanda a un pittore?».
Anche un pittore può voler sperimentare con un altro mezzo
«La risposta è no.
Conosco le potenzialità del digitale, è pratico, è utile, ma ho scelto un’altra direzione. Il mio lavoro mostra che esiste la possibilità di creare altre immagini, di tipo analogico. La pellicola è un mezzo espressivo che credo debba sopravvivere accanto al digitale, perché è un medium associato alla poesia, perché ha che fare con la luce, con la chimica, con il sole. Il film in pellicola ti costringe a un’enorme disciplina, ti forza a fare le cose. È una sequenza di immagini statiche, quindi è in relazione con il tempo. Più è in pericolo di scomparire, più desidero lavorarci per mostrare quanto sia magnifico. Serve qualcosa che ci permetta ancora di percepire il tempo che passa».