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 2021  ottobre 25 Lunedì calendario

Così i giganti del web ingannano sulla CO2

L’impatto di internet sul riscaldamento globale non è in agenda. Eppure i cloud, ovvero i giaganteschi data center dentro ai quali stanno migrando i dati di tutto il mondo, oggi assorbono l’1% della domanda globale di energia. E i consumi si traducono in emissioni. Un solo server produce in un anno da 1 a 5 tonnellate di CO2 equivalente, e ogni gigabyte scambiato su internet emette da 28 a 63 g di CO2 equivalente. Quasi il 20% dell’energia utilizzata da un data center è impiegata nel suo raffreddamento. Da una parte ci aiuta la tecnologia perché l’efficienza energetica raddoppia ogni due anni, dall’altra si stanno sperimentando diverse allocazioni: nel 2015 Microsoft ha inserito 864 server in un cilindro di acciaio riempito di azoto secco e lo ha depositato nel Mare del Nord. Non a caso le società che gestiscono dati cercano luoghi con basse temperature e dove la produzione di elettricità da fonti rinnovabili è più sviluppata. In Islanda per esempio hanno trasferito i loro data center Advania, Exit Everywhere Borealis, Verne. Ma un utente, un’azienda o un ente pubblico per sapere quanto impatta il suo servizio deve conoscere due cose: quanto consuma, e da quale fonte si approvvigiona chi gestisce i suoi dati.

Le normative “volontarie”
Queste informazioni Google, Amazon, Apple, Ibm e Microsoft non le danno. Nei loro report di sostenibilità infatti non indicano mai l’impatto del singolo servizio. Le normative di riferimento ci sono: la ISO14064-1 e la ISO14067, che certificano in maniera obiettiva l’impronta di carbonio di un’azienda o di un prodotto, però non sono obbligatorie, e i giganti del cloud non le usano. Le emissioni preferiscono “autocertificarsele”. Fa eccezione Microsoft per Azure, ma solo per i clienti commerciali; e la piccola italiana Aruba, che dal 2011 usa al 100% energia rinnovabile con certificazione di Garanzia di Origine (GO). Il suo approvvigionamento per il data center proviene dall’acquisto della società idroelettrica Veneta, dalla installazione di parchi fotovoltaici, e utilizzo di geotermico, ma poi non dichiara qual è la sua impronta totale di carbonio. Dunque, un grande ente pubblico, come il comune di Milano per esempio, come fa a scegliere il fornitore più sostenibile per la gestione dei suoi dati, visto che nessuno produce la certificazione Iso? La strada alternativa è quella di farsi il proprio Data center, acquistando sul mercato energia rinnovabile.

Quanto inquinano le big tech
Delle big tech la più inquinante è Amazon: nel 2020 ha emesso 54.659.000 di tonnellate di CO2 (però include anche il trasporto pacchi), seguono Samsung con 29 milioni, e Apple con 22 milioni. Tra le multinazionali 100% web la peggiore è Google con 12,5 mlioni di tonnellate di CO2. Segue Microsoft con 11,5 milioni, in terza posizione Facebook con 4 milioni. Queste multinazionali hanno più volte promesso di tagliare le emissioni di gas serra per contribuire al contenimento del riscaldamento del pianeta. Cosa stanno facendo in concreto? Qualcosa si muove, ma la parte più corposa riguarda il meccanismo delle compensazioni di carbonio, ovvero l’acquisto sul mercato di certificati negoziabili equivalenti ad una tonnellata di CO2 non emessa, o assorbita grazie ad un progetto di tutela ambientale. Tradotto: investono in parchi fotovoltaici ed eolici, e piantano alberi. Lo ha fatto Microsoft in Madagascar, e Amazon in Brasile. Google dichiara 8 milioni di tonnellate di Co2 compensate negli ultimi cinque anni, Facebook ne ha dichiarate 145.000 nel 2020, Microsoft 1,3 milioni con 26 progetti green sparsi nel mondo. Un meccanismo legale, e ingannevole, perché sembri green, ma non lo sei. La stessa Microsoft dichiara che non sarà green nemmeno in futuro: nel suo ultimo rapporto di sostenibilità ha annunciato la neutralità nel 2030. Guardando i dati vuol dire che fra nove anni, sempre che le promesse siano rispettate, l’azienda di Redmond emetterà ancora 5 milioni di tonnellate di CO2, ma potrà definirsi “neutral” perché lo stesso numero è compensato dall’acquisto di certificati. Se queste multinazionali avessero un minimo senso di responsabilità, visto che fanno giganteschi profitti, dovrebbero destinare una parte degli utili alla realizzazione di fonti rinnovabili e alla riforestazione per restituire al pianeta un po’ di quello che hanno preso, non per poter continuare ad inquinare.

La spinta della finanza
Una possibilità può arrivare dalla pressione degli investitori istituzionali, come i grandi fondi pensione del Nord Europa, che espellono dal proprio portafoglio i grandi inquinatori.
L’associazione dei fondi pensione inglesi, la Pensions and Lifetime Savings Association (Plsa), già un anno fa ha chiesto alle aziende in cui investono il rispetto di alcuni parametri ambientali, una maggior trasparenza sulle emissioni di gas serra e remunerazioni dei manager agganciate al taglio delle emissioni. In caso contrario Plsa invita i fondi pensione a votare contro nelle assemblee delle aziende quotate. Una spinta non banale: la Plsa tutela gli interessi di 20 milioni di risparmiatori e ha investimenti per mille miliardi di sterline. A gennaio 2021 Laurence Fink, il numero uno di BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo con 9.500 miliardi di dollari in gestione, ha inviato una lettera agli amministratori delegati delle aziende in cui investe: dovranno dare al mercato un cronoprogramma sulla riduzione di CO2, vistato dal consiglio d’amministrazione e che porti a emissioni zero (non “neutral”) nel 2050. Il clima è il rischio di investimento più importante tanto da aver provocato una massiccia riallocazione di capitali: da gennaio a novembre 2020, gli investitori in fondi comuni ed Etf hanno messo 288 miliardi di dollari in asset sostenibili, con un incremento del 96% rispetto al 2019. Il problema è che “la sostenibilità” è spesso più una dichiarazione di intenti che sostanza.

Come ridurre i consumi
La prima parola chiave è “non sperperare”. Quante volte visitiamo un sito, e poi facciamo altro senza chiudere la finestra? Ebbene, quel sito continua a scambiare dati dal server al nostro computer. Non è oneroso progettare i siti in modo che vadano in modalità stamina dopo pochi minuti se non c’è navigazione. Lo fa per esempio il sito italiano di Suzuki , e ha stimato il risparmio: il 20% in meno di quanto consumerebbe il computer a pieno regime. Calcolando i tempi medi di sessione, in un anno il risparmio finale è di 476.000 Watt, pari a 206,2 Kg di CO2. Sembra poca roba, ma se soltanto lo facessero i primi 100 siti italiani per traffico, sarebbero 15.625 tonnellate di CO2 in meno, come far sparire circa 5.000 auto.

Le emissioni di Netflix
La seconda parola è “consapevolezza”: se non so quanto consumo, non so quanto inquino. Prendiamo quello generato dal traffico dati della visione di film o serie tv in streaming. Per la parte Netflix c’è modo di calcolarlo. Bisogna accedere al sito Just watch calcolatore streaming, scaricare la propria cronologia di Netflix e seguire le istruzioni. Risultato: Clotilde, 14 anni, in un anno e mezzo ha visto in streaming 952 episodi e film tv, che hanno emesso 321 kg di CO2, equivalente a 299 cicli di lavatrice a 60° e 2145 km in automobile. Piermatteo, 30 anni, iscritto da 4 anni, ne ha visti in totale 1840, pari a 621 kg di Co2. Per compensare queste emissioni bisogna piantare 13.534 alberi. I giovani, che sono molto sensibili ai temi ambientali, sono i maggiori navigatori e consumatori di streaming. Nello spot Climate pledge i giovani di tutto il mondo elencano le grandi emergenze, e supplicano di agire ora. Saranno presenti con una delegazione il 31 ottobre a Glasgow per portare il loro contributo di idee alla 26esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Sarebbe utile un appello alla responsabilità mettendo sul tavolo anche il consumo compulsivo che proprio loro fanno di internet.